Daimon origine e significati, carattere e destino, la storia dell’etimologia e dell’evoluzione del concetto, dall’antica grecia di Socrate e Platone fino alla psicologia di Hillman e alla metodologia di Brown.
“… Ci rifiutiamo di stabilire un’opposizione di principio tra le due serie di fattori etiologici (quelli costituzionali e quelli accidentali), ammettiamo invece che esse agiscono sempre congiuntamente nella produzione dell’effetto osservato. Daimon kai tuke (patrimonio naturale e fato) decidono il destino di un uomo; di rado, forse mai, una sola di queste forze”.
S. Freud (1912): Dinamica della traslazione.
Forse avrebbe anche potuto scegliere nel migliore dei modi, ma il suo Daimon non era poi così affidabile, inoltre Dada dubitava di tutto, e per questo non seppe quasi mai fare la scelta più opportuna, tuttavia si divertiva a provare, non senza una certa nostalgica e melanconica sofferenza.
Carl William Brown
Degli Astri celesti invocherò il sacro splendore con voci conformi al rito chiamando i dèmoni santi.
Inni orfici, Profumo degli astri-aromi
Ethos anthropoi daimon. (Il carattere è il destino).
Eraclito
Il carattere è il destino, ovvero la nostra vita è strettamente legata al nostro comportamento e viceversa.
Carl William Brown
Il daimon che ci costringe, con il bisogno, a imboccare la via: il piccolo dio individuale, lo Shiva interiore.
C.G.Jung
Il concetto di Daimon è anche fortemente connesso con il significato dell’Eudaimonia di Aristotele, ovvero trovare la propria passione interiore e svilupparla bene senza alcun eccesso per vivere in modo virtuoso e felice.
Carl William Brown
L’anima sempre metaforizza.
Plotino
Un dèmone dal greco antico δαίμων, trasl. dáimōn, “essere divino” è un essere che si pone a metà strada fra ciò che è divino e ciò che è umano. Nella cultura religiosa ha funzione di ostacolo tra queste due dimensioni, nella filosofia greca, ha invece funzione di intermediario tra l’uomo e il divino.
Secondo Welcker, il termine daimon sarebbe uno dei principi più antichi della filosofia greca.
In Esiodo, vissuto tra i secoli VIII e VII a.C., il demone è lo stato post mortem che assumono gli esseri della prima generazione aurea:
“Poi, dopo che la terra questa stirpe ebbe coperto, essi sono, per volere del grande Zeus, dèmoni propizi, che stanno sulla terra, custodi dei mortali, e osservando le sentenze della giustizia e le azioni scellerate, vestiti di aria nebbiosa, ovunque aggirandosi sulla terra, dispensatori di ricchezze: questo privilegio regale posseggono”.
Esiodo
Quindi la prima generazione, quella aurea vivente al tempo di Crono, scomparve sopraffatta dal sonno, Zeus li trasformò quindi in dèmoni, “tutori dei mortali”, protettori del genere umano.
Nella religione orfica il demone è l’essenza stessa dell’anima, imprigionata nel corpo per una colpa compiuta e da cui cerca di liberarsi.
Eraclito (V secolo a.C.) ne parla come di un destino legato all’indole: “Il carattere di un uomo è il suo daimon”.
Socrate riferisce di un dàimon o “guida divina” che lo assiste spesso in ogni sua decisione. Si tratterebbe di una sorta di «coscienza morale» che si rivela progressivamente come forma di delirio e di ispirazione divini, una voce identificabile come l’autentica natura dell’anima umana, la sua ritrovata coscienza di sé. In base alla testimonianza di Platone, il daimon di cui parla Socrate consiste infatti in una presenza divina, simile a un genio tutelare, che si fa avvertire in lui tramite segni per stimolare la sua ragione a eseguire la scelta più adatta, ma non tanto per indurlo a compiere certe azioni, quanto piuttosto per distoglierlo:
“C’è dentro di me non so che spirito divino e demonico; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell’atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte.”
Apologia di Socrate, 31 d
Attraverso il daimon Socrate riesce così a esprimere il sommo grado della sua tipica ironia anche nella dimensione religiosa.
Gli interpreti sono rimasti per lo più assai sconcertati ed hanno dato del daimonion socratico esegesi disparatissime. Qualcuno ha creduto di poter recidere la questione in tronco, mettendo interamente in conto all’ironia socratica e alla sua inventiva tutta la faccenda del daimonion; altri hanno inteso questa peculiarissima esperienza socratica in chiave, per così dire, psichiatrica, e, cioè, come un fatto di natura psicopatica; altri, più moderatamente, lo hanno ridotto alla voce della coscienza, o al sentimento del conveniente, o al sentimento che pervade il genio; e gli esempi si potrebbero moltiplicare, fino a giungere alle moderne interpretazioni in chiave psicoanalitica o ispirate alla psicoanalisi. Si tratta, per la verità, di studiosi che non credono al fatto religioso e lo risolvono e dissolvono in maniera positivistica o razionalistica o psicologistica o psicoanalitica e che, per conseguenza, travisano in maniera irreparabile quanto di peculiare c’è nell’esperienza del daimonion socratico.
Innanzitutto è da rilevare che daimonion è un neutro, e che quindi (e su questo hanno ragione di insistere gli interpreti di estrazione positivistica o razionalistica) non indica un démone-persona, ossia un essere personale (una specie di angelo o di genio), bensì un fatto o evento o fenomeno divino: in effetti mai, né in Platone né in Senofonte, il daimonion è detto “démone”, ma è detto “segno” e “voce divina”.
Precisato questo, però, è subito da rilevare quanto segue: a) espressamente Socrate, nell’Apologia di Platone, mette in connessione il “segno divino” con i démoni, spiegando che, nella misura in cui egli crede a “cose demoniache”, crede ai démoni e quindi agli Dei, da cui i démoni derivano b) inoltre, altrettanto espressamente, egli lo mette in connessione con Dio stesso, dicendo senza possibilità di equivoci che il segno e la voce che sentiva dentro di sé erano segno di Dio e voce di Dio. Orbene, tutta la grecità ha ritenuto i démoni intermediari fra gli Dei e gli uomini ed è altamente probabile, per non dire certo, che questa fosse anche la credenza di Socrate. Per il Greco non era facilmente pensabile un contatto o un rapporto immediato di Dio con l’uomo, e la concezione pluralistica del divino, che, come abbiamo veduto, anche Socrate condivise, portava di per sé a pensare il rapporto fra Dio e uomo tramite l’intermediario dei démoni.
Il “segno divino” doveva dunque venire a Socrate tramite un démone, tuttavia egli evitò questa parola e non è corretto (come fanno invece molti) tradurre senz’altro daimonion con démone, perché, così facendo, si esplicita ciò che da Socrate è volutamente lasciato nell’indeterminato: egli, infatti, ha preferito attenersi a ciò che sentiva in sé e a qualificare come divino questo fenomeno, senza approfondire il modo con cui esso avveniva e per quale mediazione.
Proseguendo nella nostra analisi dobbiamo concludere che il reale significato del “daimon” per Socrate è stato variamente interpretato: con questo termine, secondo Paolo De Bernardi, egli sembrava indicare l’autentica natura dell’anima umana, la sua ritrovata coscienza di sé. Mentre per Gregory Vlastos il dáimon inviava i suoi segni al fine di stimolare la ragione di Socrate a fare la scelta più adatta. Giovanni Reale seguendo Vlastos ritiene che il dáimon in Socrate esprimeva il sommo grado dell’ironia socratica anche nella dimensione religiosa.
Comunque gli autori concordano che nella concezione socratica era prevalente l’elemento dell’interiorità riferito all’eudemonia, cioè la felicità, la serenità interiore era l’effetto di un comportamento razionale indirizzato alla virtù.
È questo il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate che sosteneva che l’unica causa possibile del male era l’ignoranza del bene «So invece che commettere ingiustizia e disobbedire a chi è migliore di noi, dio o uomo, è cosa brutta e cattiva. Perciò davanti ai mali che so essere mali non temerò e non fuggirò mai quelli che non so se siano anche beni.» ma una volta conosciuto il bene, non era possibile astenersi dall’agire moralmente realizzando il bene che era di per sé “piacevole” in quanto generava la eudemonia, la serenità dell’animo.
Eudemonismo
“Eudemonismo. Ogni dottrina che assume la felicità come principio e fondamento della vita morale.”
Nicola Abbagnano
Il termine Daimon appare inoltre centrale nell’eudemonismo, ovvero la dottrina morale che riponendo il bene nella felicità (eudaimonia) la persegue come un fine naturale della vita umana.
Dall’eudemonismo va distinto l’edonismo che si propone come fine dell’azione umana il «conseguimento del piacere immediato» inteso come godimento (come pensava la scuola cirenaica di Aristippo) o come assenza di dolore (secondo la concezione epicurea).
Il termine deriva dal greco εὐδαιμονισμός (eudaimonismòs), da εὐδαιμονία (eudaimonìa), composto di bene (εὖ èu) e spirito guida-sorte (δαίμων dàimōn), termine associabile anche a “essere divino”, “genio”, “spirito guida”‘ o “coscienza”. In senso lato “eudemonia” vuol dire “essere in compagnia di un buono spirito”
Emilio Lledò, professore di Storia della filosofia all’Universidad Central di Barcellona, risponde sulla ricerca intorno al bene, all’esistenza buona, nella filosofia greca e spiega il concetto di eudaimonia, il cui campo semantico in greco è più ampio di quello di “felicità” in italiano. Secondo il suo etimo questa parola rimanda a una concezione per cui la felicità dipende piuttosto dalla benevolenza (eu) del daimon che dall’agire autonomo dell’uomo. Lledò si riferisce qui in particolare ad Aristotele, che dopo avere, nel Libro I dell’Etica Nicomachea, messo in stretto rapporto il perseguimento del bene con la ricerca della felicità e la virtù, torna in un altro luogo dello stesso trattato (L. IX, 9, 1169 b) a confutare l’adagio che “chi ha un buon daimon non ha bisogno di amici”.
Tornando al significato profondo del termine in questione e al carattere messo in relazione con il Daimon personale da Eraclito e poi anche da Freud, mi sento di trovarmi molto vicino ad Aristotele che riteneva che ogni individuo fosse fornito di una vocazione particolare, di una inclinazione speciale, potrei aggiungere di un genio più o meno creativo, che lui chiamava appunto “daimon”. Per il sottoscritto quindi, ciascuno ha il suo Daimon che va protetto, studiato, approfondito, ricercato, perfezionato, coltivato, e messo in stretta relazione e comunicazione con la parte più intima, intellettuale e spirituale della nostra persona. Diciamo pure che è un elemento simbolico e metaforico che ci caratterizza e che dovrebbe spingerci verso il bene e quindi un costante miglioramento, oppure verso esperienze più problematiche e magari dannose per noi stessi, ragion per cui in questo caso si tratterebbe di un Daimon negativo, che invece di aiutarci a stare meglio, si prodigherebbe per farci stare peggio. In ogni caso il Daimon si identifica sempre con noi stessi e non è ovviamente un elemento esterno alla nostra individualità.
Platone e Senocrate
In Platone il demone Eros, figlio di Penia e di Poro, è quella forza demonica che consente all’uomo di elevarsi verso il sovrasensibile.
Così nel Simposio di Platone viene narrato l’insegnamento su Eros impartito da Diotima a Socrate:
“Eros è un gran demone, o Socrate: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale. Ha il potere di interpretare e di portare agli dèi le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dèi: degli uomini le preghiere e i sacrifici, degli dèi, invece, i comandi e le ricompense dei sacrifici. E stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con sé medesimo.”
Platone, Simposio 202, D-E
Un’idea fondamentale, insita nel nome stesso, che Platone ha contribuito a diffondere è proprio quella del Daimon. “Daimonia kainà” significa letteralmente “nuove (creature) divine”. Il daimonion di cui si parla nell’Apologia è l’aggettivo neutro che viene da daimon (da daiomai: dispenso, do in sorte), una creatura divina non necessariamente malevola, che presiede alle sorti degli uomini, una specie di genio tutelare, uno spirito che ci consiglia e indirizza, e che ci stimola a riflettere, senza per questo imporci le sue decisioni. Un daimon è contenuto nella parola eudaimonia (felicità), che significa, etimologicamente qualcosa come: “un buon daimon governa il mio destino”. Il daimon è la creatura divina che presiede al destino di ciascuno. Nel racconto di Er, il daimon non capita in sorte, ma è oggetto di una scelta. La libertà di scelta rende la virtù “senza padrone”, a differenza di quanto avveniva nella morale tradizionale, ove questa era appannaggio di una figura sociale ben determinata, l’aristos, o comunque di un gruppo estremamente ristretto.
In un altro dialogo, Il Simposio, Platone descrive i demoni come messaggeri della volontà divina e esseri di contatto tra i mortali e gli dèi: E’ grazie all’elemento demonico che hanno potuto esserci la divinazione e le pratiche dei sacerdoti, in rapporto alle cose che hanno a che vedere con i sacrifici, i riti di iniziazione, gli incantesimi, le diverse profezie e la magia. (202E-203A)
Con Senocrate viene analizzata la figura del demone ripresa dall’opera di Platone. I dèmoni per Senocrate sono sempre esseri intermediari tra gli uomini e gli dèi, sono più potenti degli uomini ma meno degli dèi. A differenza di questi ultimi che sono sempre buoni, tra i dèmoni ve ne sono anche di cattivi. Quando gli antichi miti narrano di divinità in lotta fra loro coinvolti in passioni umane essi, per Senocrate, parlano di dèmoni non di dèi. I dèmoni hanno un posto di rilievo sia negli atti cultuali sia negli oracoli. I dèmoni infine corrispondono ad anime umane liberate dai corpi dopo la morte, permanendo in loro il conflitto tra bene e male, essi lo trasferiscono dalla Terra al mondo celeste.
Le stesse tesi di Senocrate si possono ritrovare nel testo De deo Socratis di Apuleio.
Anche gli Stoici sostengono l’esistenza dei dèmoni come di esseri che vigilano sugli uomini condividendone i sentimenti. Così Diogene Laerzio:
“Gli stoici dicono, poi, che esistono anche alcuni dèmoni che hanno simpatia per gli uomini, che vigilano sulle cose umane, e anche che esistono eroi, ossia le anime sopravvissute dei virtuosi.”
Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi illustri Libro VII, 151
Marco Aurelio indica come demone l’anima intellettiva che va curata e privata di turbamenti:
“Inoltre rimane la cura di non insozzare il demone che ha preso dimora nel nostro petto, la cura di non turbarlo con impressioni confuse e molteplici; di mantenerlo sereno e benigno, tributandogli rituale e onore come a un Dio; e non dire nulla che sia contrario al vero; non fare nulla contro giustizia.”
Marco Aurelio, Colloqui con sé stesso Libro III, 16
Medio e neo-platonismo
Con il medioplatonismo la figura del demone si connota in modo sempre più articolato e viene inserito come terzo aspetto della gerarchia del divino dopo il dio supremo e gli dèi secondari. Così Plutarco:
“Platone, Pitagora, Senocrate, Crisippo, seguaci dei primitivi scrittori di cose sacre, affermano che i Dèmoni sono dotati di forza sovrumana, anzi sorpassano di molto per estensione di potenza la nostra natura, ma non posseggono, per altro, l’elemento divino puro e incontaminato, bensì partecipe, a un tempo, di una duplice sorte, in quanto a una natura spirituale e sensazione corporea, onde accoglie piacere e travaglio; e tale elemento misto è appunto la sorgente del turbamento, maggiore in alcuni, minore in altri. Così è che anche tra i dèmoni, né più né meno che tra gli uomini, sorgono differenze nella gradazione del bene e del male.”
Plutarco, Iside e Osiride, 25
Alessandro d’Afrodisia sostiene che il daimon di ogni uomo consiste nella sua stessa natura.
Nel neoplatonismo Plotino affida al “daimon che ci è toccato in sorte” il compito di guidarci nell’ascesa al soprasensibile, tramite la forza dell’eros e della bellezza. Poiché il pensiero cosciente e puramente logico non è sufficiente, si tratta anche in questo caso di un’ispirazione mistica, della scintilla di uno spirito divino grazie a cui è possibile elevarsi dalla dimensione materiale a quella intellegibile. Secondo Porfirio lo stesso Plotino era assistito “da uno di questi demoni che sono prossimi agli dei”.
Mutamento di significato
Successivamente l’uso anche negativo diede al vocabolario cristiano il termine per designare lo spirito maligno (diavolo), divenendo da allora in poi oggetto di studio della demonologia. In termini positivi, tuttavia, il significato di daimon può venire accostato per certi versi all’angelo custode, o alla nozione di guida o genio tutelare.
I filosofi rinascimentali amavano confrontare i testi di Platone e Aristotele con l’Astrologia araba con il preciso scopo di indagare su se stessi il significato spirituale del Daimon di nascita, forza misteriosa da cui ha origine carattere, vocazione e fortuna. Interpretare il Mercurio, il Sole o Marte sull’ascendente di nascita significava infatti essere predisposti ad esercitare alcuni talenti corporei rispetto ad altri, oppure certe abilità mentali rispetto ad altre. Chi invece aveva i pianeti femminili sul punto dello zodiaco dove ascendeva il sole poteva invece espandere le qualità dell’anima, ovvero percezione, intuizione e consapevolezza sensoriale, doti essenziali per diventare artisti, poeti e giullari di corte.
Il termine greco Daimon significa genio, spirito guida, potere divino, e anche, divinità inferiore o eroe divinizzato, ma non solo, infatti il verbo espresso da questa parola significava pure dividere, distribuire, ripartire, condividere e il suffisso “da” era comune a parole come democrazia, demiurgo e altri termini che derivavano dal nome “demos” vale a dire popolo, e forse è per questo che non è mai stato visto di buon occhio dal potere ufficiale, che non voleva appunto mettere in comune i suoi privilegi e ha visto nel genio della critica il demonio del male. Così dal genio è nato Satana, per il Carducci “la forza vindice della ragione”, per Baudelaire “le plus savant et le plus beau des anges”.
Carl William Brown
“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve uno spirito tutelare che ci guidi, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino”.
J. Hillman, Il codice dell’anima
Il filosofo, come pure il ricercatore scientifico, l’artista o il poeta, attua la sua ideazione nell’assenza, e l’assenza dell’oggetto costituisce proprio “il tratto peculiare dell’immagine”. Chi è animato dal genio o daimon crea, in senso lato, immagini, pensieri ed idee di straordinaria efficacia con cui disegnare la realtà, soprattutto là ove la ragione si arena e urge per esempio l’ausilio dell’immaginazione, del racconto e del mito. Ovviamente in tutte queste riflessioni è evidente l’influenza della filosofia platonica e di tutte le sue creazioni, partendo dalle idee, per giungere allo stato ideale, attraverso lo studio, la saggezza, e il perseguimento del bene.
Ovviamente il termine Daimon viene consacrato da Platone nel suo celebre mito, il racconto di Er, descritto nel X libro della Repubblica. Er, morto in battaglia e risuscitato dopo dodici giorni, si risveglia poco prima di essere bruciato sul rogo funebre e si mette a narrare la sua esperienza “fra le vite”, racconta agli uomini il destino che li attende dopo la morte, sottolineando come non sarà il Daimon a scegliere le anime, ma le anime a scegliere il proprio Daimon, per cui la responsabilità etica non è del dio, bensì degli stessi uomini che hanno liberamente scelto tra i vari paradigmi o modelli di vita loro proposti nell’aldilà.
Platone scrive: “Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone (…). La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa”. Questo daimon, che possiamo chiamare anche “genio”, componente ineludibile del nostro io, a volte può essere perso di vista, non coltivato, accantonato, ma prima o poi tornerà per possederci totalmente, per definire la nostra immagine, la nostra vera personalità. Per Platone dunque noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere.
Insomma, ognuno di noi ha una sua personalità, una sua vocazione, una sua immagine, un suo carattere, dei suoi tratti distintivi, non solo fisici, ma chiaramente anche mentali, e tutti questi elementi ci contraddistinguono in modo radicale, ma il tutto è comunque in trasformazione, le cose cambiano, tutto scorre, e quindi sta alla nostra serietà cercare la giusta motivazione e in seguito alimentarla con il massimo impegno, cercando di fare nel migliore dei modi quello che stiamo facendo, facendo attenzione a migliorare giorno per giorno le nostre possibilità, per rendere davvero autentica ed utile, non solo a noi stessi, ma anche al prossimo e alla società in cui viviamo, la nostra esistenza.
Come abbiamo visto il daimon è un’immagine antica, presente, con nomi diversi, in diverse culture: nella nostra potrebbe essere, per certi versi, assimilata a quella dell’angelo custode, nelle culture dell’America Centrale è definito come un “nagual”, un animale sacro, uno spirito guida che può essere percepito nelle esperienze di coscienza alterata come quelle che si raggiungono con l’assunzione di droghe psicotrope.
Il Daimon è comunque un’idea, un’immagine, una creazione mitologica, una metafora che va decifrata, il letteralismo la rende “solida” e concretizza i suoi termini facendoli diventare reali. Parlando di daimon non descrivo ovviamente un’entità in carne ed ossa o un “essere spirituale” quanto, piuttosto, una figura che ci aiuta a comprendere qualcosa sulla nostra interiorità.
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