La lingua Cinese, un breve articolo che spiega le caratteristiche di questo antico idioma, dialetti, grammatica, fonetica, abitudini culturali e evoluzione linguistica.
Se non esistessero gli stupidi non si distinguerebbero i saggi.
Proverbio Cinese
Colui che chiede e’ uno stupido per cinque minuti. Colui che non chiede e’ uno stolto per sempre.
Proverbio Cinese
Un uomo saggio impara dall’esperienza, un uomo ancora più saggio impara dall’esperienza degli altri.
Proverbio Cinese
È la lingua più parlata nel mondo, caratterizzata da una singolare musicalità e da un arcano sistema di scrittura; tuttavia la sua struttura grammaticale è straordinariamente semplice.
Quando si tratta della lingua cinese, i superlativi si sprecano: essa ha un numero di parlanti maggiore rispetto a qualsiasi altra lingua umana; la sua letteratura, che affonda le proprie radici fino a 35 secoli or sono, è la più antica del mondo; la sua apparente complessità spaventa gli occidentali. abituati come sono alle più familiari lingue europee. Tuttavia, osservata più da vicino, la lingua cinese non ha nulla di complicato. Sotto diversi aspetti, anzi, si può dire che il cinese sia più semplice rispetto alle lingue occidentali. Per storia e struttura è radicalmente diverso dalle lingue d’Europa, ma queste differenze ci possono essere di aiuto per meglio comprendere la natura del linguaggio umano.
Il sistema di scrittura cinese disorienta completamente l’uomo occidentale: abituato a lasciarsi guidare da file bene ordinate di simboli alfabetici semplici. il suo occhio si smarrisce tra migliaia di caratteri differenti, di cui molti hanno un aspetto assai complesso. All’orecchio, la lingua cinese suona melodiosa, quasi come se fosse cantata. Una volta superate tutte queste prime impressioni si cominciano ad avere le vere sorprese: il cinese non possiede coniugazione dei verbi e neppure declinazione dei sostantivi. Quelle terribili liste di flessioni che generazioni di scolari occidentali hanno dovuto mandare a memoria sono totalmente assenti dalla grammatica cinese.
Al posto di tutte le differenti forme di un verbo pur regolare, come l’italiano “comprare” (per esempio “compra”, “comprerei”, “comprato”, “comprando” eccetera), il cinese non usa che l’unica forma mai. (L’accento circonflesso capovolto sulla a indica il terzo tono: la sillaba viene pronunciata con un’intonazione che discende e poi risale; tre altri accenti contrassegnano i diversi toni: a indica il I tono, piatto e alto; à il II tono, ascendente; à il IV tono, discendente.) In luogo delle forme sostantivali “libro”, “libri”, “dai libri” o “sui libri”, il cinese non utilizza che sha. Nella maggior parte dei casi, il contesto è sufficiente a indicare il tempo e il modo verbale, o il caso e il numero del sostantivo; il cinese tende quindi a far piazza pulita di tutte le ridondanze grammaticali. Pensando senza dubbio a questa semplicità strutturale il linguista e antropologo americano Edward Sapir gratificava il cinese di lingua “logica nella concisione”.
Contrariamente a quanto si pensi, i cinesi oggi non si inchinano più quando si salutano. Anche la stretta di mano non rientra nelle loro abitudini ed è riservata solamente quando si incontra un occidentale; il saluto che la accompagnerà è ni hao.
L’uso dei convenevoli è comunque limitato agli incontri tra cinesi e stranieri. A differenza di noi occidentali, che per tradizione ci interroghiamo sul reciproco statodi salute, i cinesi tra loro si pongono domande di altro tipo, come ad esempio: Hai mangiato? Dove Vai? Tra tutte le forme di commiato la piùutilizzata è zàijiàn, che corrisponde all’italiano arrivederci. Un’altra formula molto diffusa, con il signbificato di arrivederci è, mànmàn zou, letteralmente, vai lentamente.
Rispetto a noi occidentali i cinesi fanno un uso di gran lunga più limitato del grazie. Si ringrazia un amico per un invito o per un aiuto ricevuto, ma non con insistenza, altrimenti si rischia di offenderlo perché l’eccessiva formalità è intesa come un atteggiamento di snobismo. Allo stesso modo n on si ringrazia il cameriere di un ristorante, né la commessa di un negozio: costoro sono figure professionali che ci servono per mestiere e non per cortesia, ringrazirli sarebbe inteso come un disconoscimento della loro professionalità.
La grammatica cinese è in realtà molto semplice. Il cinese è una lingua non alfabetica e ogni carattere corrisponde a una sillaba. La maggioranza delle parole sono mono o bisillabiche, quindi fornate da uno o due caratteri. Non esistono gli articoli. I verbi non hanno modo, tempo, né coniugazione e sono sempre all’infinito. I sostantivi non hanno il genere (maschile e femminile) né il numero (singolare o plurale). Il sesso degli esseri umani, qualora fosse necessario evidenziarlo, si indica aggiungendo davanti al nome nan (maschio) o nu (femmina).
La struttura semplice della frase cinese corrisponde a quella dell’italiano: soggetto più verbo più complemento. La domanda si forma aggiungendo le marticelle modali ma e ne alla fine della frase o viene semplicemente segnalata con l’intonazione. I pronomi personali sono semplicemente dei pronomi personali, utilizzati con l’aggiunta della particella de, per rendere il rapporto di possesso. A seconda che il nome che determinano venga o meno espresso, saranno tradotti in italiano con un aggettivo o un pronome possessivo.
Il Cinese, è la lingua del popolo cinese, o han, il maggiore gruppo etnico della regione comprendente la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan. Il 95% circa della popolazione cinese, oltre 1,4 miliardi di persone, parla cinese; alcune minoranze parlano lingue non cinesi come tibetano, mongolo, lolo, miao e thai. Il cinese è parlato anche da consistenti comunità di immigrati nell’Asia sudorientale, in America settentrionale e nelle isole Hawaii ed è, fra le lingue, quella con il maggior numero di parlanti di madrelingua, seguita dall’inglese e dallo spagnolo. In quanto lingua dominante nell’Asia orientale, esercitò un grande influsso sui sistemi di scrittura e sul lessico delle lingue confinanti, come il giapponese, il coreano e il vietnamita. Si è calcolato che fino al XVIII secolo più di metà dei libri a stampa fossero in cinese.
Il cinese, assieme al tibetano, al birmano e a diverse lingue dei popoli tribali dell’Asia meridionale e sudorientale, appartiene alla famiglia linguistica sinotibetana. Oltre a un certo numero di vocaboli e di suoni, il cinese e le lingue imparentate con esso condividono alcuni tratti che le differenziano dalla maggior parte delle lingue occidentali: sono monosillabiche, hanno una flessione molto povera, e sono tonali. Per distinguere parole di suono simile, ma di significato differente, le lingue tonali danno alle parole un tono musicale distintivo statico: (alto o basso) o dinamico (ascendente o discendente).
Ogniqualvolta si richiama l’attenzione sull’antichità della lingua cinese, si rischia di mettere in ombra un altro dei suoi aspetti: la sua evoluzione. Tutte le lingue umane risalgono alle brume indistinte della preistoria, e noi di fatto ignoriamo se esse abbiano tutte o meno la stessa origine. Intorno a 4000 anni fa, gli antenati delle attuali popolazioni cinesi parlavano una forma primitiva di cinese, proprio come circa 1000 anni fa gli abitanti della metà settentrionale dell’attuale territorio francese parlavano la cosiddetta langue d’oil. Non è men vero che il cinese sia una lingua assai antica. Il sumero è la sola lingua scritta precedente ai più antichi scritti cinesi. La scrittura cuneiforme sumera risale a circa 5000 anni fa, mentre i più antichi scritti cinesi conosciuti datano a 3500 anni fa.
Tuttavia il sumero e le sue forme derivate si sono estinti ben prima dell’inizio dell’era cristiana, mentre la scrittura cinese, continuando a evolversi, si è trasmessa fino ai nostri giorni. Le più antiche iscrizioni cinesi sono intagliate su osso o su gusci di tartaruga. La maggior parte di esse rappresenta responsi oracolari, come l’ annuncio di avvenimenti politici o religiosi. Talora si tratta di previsioni sull’andamento delle stagioni, o di massime sull’arte della guerra.
Tali iscrizioni vennero scoperte per la prima volta in Cina sul finire del secolo scorso: chiamate pittorescamente “ossa del drago” vennero fatte oggetto di un fiorente commercio per le loro presunte virtù medicinali. Esse costituiscono i veri gioielli dell’archeologia e della filologia cinese e ne sono state scoperte oltre 100.000. Il numero totale di segni incisi sull’insieme dei pezzi conosciuti supera il milione. In compenso, il numero di caratteri diversi è alquanto limitato, dal momento che il contenuto degli oracoli varia poco e gli stessi caratteri si ripetono con grande frequenza.
Il cinese parlato comprende molti dialetti, classificabili in sette gruppi, talvolta definiti vere e proprie lingue, poiché i parlanti non riescono a comprendersi: le differenze di pronuncia e di lessico che sussistono fra alcuni gruppi sono assimilabili a quella fra le lingue romanze. Di fatto la maggioranza dei cinesi parla un dialetto comune, che gli occidentali chiamano mandarino; la pronuncia standard è quella della lingua parlata a Pechino. Il mandarino è anche alla base del moderno vernacolo scritto, il baihua, che soppiantò il cinese classico nelle scuole dopo il 1917, e della lingua scritta ufficiale, il putonghua, adottata in tutte le scuole nel 1956. Dunque oltre due terzi della popolazione cinese parlano uno dei dialetti del mandarino, di cui fa parte anche il dialetto di Pechino (Beijing). Ma sono soprattutto i dialetti parlati lungo la costa meridionale a essersi diffusi in tutto il pianeta in seguito alla diaspora cinese. Sul territorio cinese, si parlano comunque anche lingue non cinesi, come il mongolo e il tibetano.
I dialetti cinesi moderni (dall’XI secolo d.C.) sorsero dall’antico cinese (VIII-III secolo a.C.), di cui si è tentata una ricostruzione fonetica. L’antico cinese, anche se monosillabico, non era del tutto privo di flessione. Lo stadio successivo del cinese, cioè il medio cinese (fino all’XI secolo ca. d.C.), è stato oggetto di attenti studi. A quella data il ricco sistema fonetico dell’antico cinese era giunto all’estrema semplificazione dei dialetti attuali. L’antico cinese possedeva, ad esempio, la serie di consonanti p, ph, b, bh (dove h rappresenta un’aspirazione). In medio cinese la serie si ridusse a p, ph, bh e in mandarino rimangono solo p e ph (pronunciati b e p).
La sillaba del mandarino moderno consiste, essenzialmente, di un elemento finale, cioè una vocale (a, e) o semivocale (i, u) o di alcune combinazioni di questi suoni (dittonghi o trittonghi) con un tono (piano, ascendente, discendente o ascendente-discendente), e talora una consonante finale che può essere solo n, ng o r. L’antico cinese aveva anche, tra le finali, p, t, k, b, d, g e m. L’elemento finale può essere preceduto da una consonante iniziale, ma mai da un gruppo consonantico; l’antico cinese probabilmente aveva nessi di consonanti, come nelle parole klam e glam.
Con la progressiva riduzione delle distinzioni di suono, ad esempio il passaggio di -m finale a -n, sillabe come lan e lam divennero semplicemente lan, con il risultato che in circa 1300 parole monosillabiche si concentrò l’intero lessico cinese, con l’aumento conseguente del numero di termini omofoni. Per questo motivo, le parole “poesia”, “donare”, “maestro”, “umidità”, “perdere”, “cadavere” e “pidocchio”, che in medio cinese avevano tutte una pronuncia diversa, in mandarino diventarono tutte shi in tono piano.
Di fatto, il numero di omofoni che si veniva a creare sarebbe stato intollerabile, se contemporaneamente non si fossero sviluppati dei composti. Perciò “poesia” divenne shi-ge, “poesia-canto”; “maestro” diventò shi-zhang, “professore-anziano”. Anche se un moderno dizionario cinese contiene molte più espressioni composte che monosillabiche, la maggior parte dei composti può essere ulteriormente suddivisa in sillabe con un proprio significato.
L’assenza di una flessione dei nomi per indicare se sono, ad esempio, soggetto o oggetto, e il fatto che non si indichi la concordanza di genere e numero fra nomi e aggettivi, rende l’osservanza dell’ordine delle parole nella frase estremamente più importante che in italiano come indicatore delle relazioni fra le parole. Fondamentalmente, l’ordine delle parole nella frase in cinese è simile a quello dell’italiano (soggetto, verbo, oggetto) e, nei gruppi nominali, il modificatore precede la parola che è modificata.
Un’analisi più attenta rivela differenze più profonde. In italiano il soggetto è sempre colui che compie l’azione, mentre in cinese, spesso, è più semplicemente un argomento seguito da una spiegazione; un esempio è la sequenza “(In relazione a) quell’albero, foglie molto grandi”, cioè “quell’albero ha foglie molto grandi”.
In generale, il tempo verbale non viene espresso; alla mancanza di un equivalente delle proposizioni relative si sopperisce con una struttura piuttosto complicata che può precedere il termine modificato. Una sequenza del tipo “Avendo-visto-libro-immediatamente-comprare-è-quello-uomo” si traduce come “Quell’uomo compra subito tutti i libri che vede”.
Ogni lingua possiede un insieme di qualche migliaio di morfemi, le unità di contenuto semantico e grammaticale. Per esempio la parola italiana «defibrillatore» comprende tre morfemi: de-, fibrilla- tore-. Certi morfemi italiani sono costituiti da più sillabe, mentre in cinese i morfemi sono sempre monosillabici. La maggior parte dei morfemi cinesi sono sia nomi, sia verbi, sia aggettivi: sha (libro) è un nome, mai (comprare) è un verbo e guì (caro) è un aggettivo: questi morfemi sono detti lessicali. Altri morfemi, detti funzionali, servono a modificare il senso di una parola o a legare certe parole della frase.
Per esempio, associati al morfema “provare” certi morfemi permettono di costruire “provato”, “provando”, “prova”, “approvare”, “approvazione”. La declinazione e le coniugazioni, importanti nelle lingue europee, sono del tutto trascurabili in cinese. Esiste nondimeno un cinese una morfologia derivazionale. Così la modificazione di un tono può trasformare un nome in un verbo. Per esempio, sha è il verbo “contare”, e shù è la parola che significa “numero”. Si trova allo stesso modo il verbo lidn (legare) e il nome liàn (catena); il verbo mó (macinare) e il nome mò (macina). In tutti questi casi si ottiene un nome sostituendo il tono del verbo con un tono discendente.
Anche se il cinese standard non crea più nomi nuovi con questo sistema, la derivazione tonale è stata sicuramente un processo di sviluppo della lingua antica. Il cantonese utilizza ancora cambiamenti di tono per formare diminutivi. Un altro modo corrente di derivazione consiste nel raddoppiamento delle parole. Raddoppiando un nome si ottiene il senso di “ogni”: rén significa “individuo”, mentre rénren significa “ogni individuo” o “tutti quanti”; tiàn significa “giorno”, e tiantian “ogni giorno”. Il raddoppiamento di un verbo introduce l’idea di brevità dell’azione: kàn significa “guardare”, mentre kànkan vuol dire “buttare l’occhio”; zeitt significa “camminare” e zóuzou “passeggiare”. Si può anche creare un avverbio raddoppiando un aggettivo e aggiungendo il suffisso -de: kuài (veloce) dà luogo a kuàikuài-de (rapidamente); Mn (pigro) diventa lankinde (pigramente). Quando sono costituiti di due sillabe, gli aggettivi e i verbi vengono raddoppiati in maniera diversa. Un verbo bisilabico come tdolùn (discutere) diviene tà’oltìntà”olùn (discutere brevemente). Invece un aggettivo come gaofing (gioioso) diviene gclogcloxìngxìngde (gioiosamente): vale a dire, ogni sillaba viene ripetuta separatamente.
La lingua cinese scritta è arcaica e conservatrice, e assegna a ogni parola un segno, o carattere, distintivo ben preciso. Per leggere un giornale è necessario conoscere almeno dai 2000 ai 3000 caratteri, ma un ampio vocabolario ne comprende più di 40.000, classificabili in base al suono o alla forma. I testi più antichi scoperti finora sono responsi oracolari incisi su gusci di tartaruga e scapole di buoi da astrologi di corte della dinastia Shang, dagli inizi del XIV secolo a.C. in poi. Anche se da allora il sistema grafico è stato uniformato e modificato nello stile, rimangono fondamentalmente identici non solo i principi, ma anche parecchi fra i simboli fondamentali.
La scrittura cinese, in origine pittografica, basata cioè sulla rappresentazione pittorica degli oggetti, divenne poi ideografica, attribuendo a ciascun segno un valore concettuale di base, con la possibilità di rappresentare efficacemente anche le idee astratte, spesso attraverso la combinazione di diversi caratteri. Diversamente da altre scritture, però, quella cinese combina il sistema pittografico e quello fonetico, anche se il modo di indicare i suoni non è cambiato parallelamente all’evoluzione della pronuncia, ma è rimasto legato alla pronuncia di 3000 anni fa. Si hanno così gli elementi fondanti del sistema, parecchie centinaia di pittogrammi per parole-base quali “uomo”, “cavallo” o “ascia”, cui si aggiungono pittogrammi espansi o composti – come ad esempio il simbolo di un uomo che trasporta del grano, indicante “raccolto” e quindi “anno”.
Oltre ai caratteri fonetici esistono pittogrammi di parole concrete, presi a prestito per indicare parole astratte di suono uguale o simile. Il principio è simile a quello dei rebus; il pittogramma per “paletta della spazzatura” (che si pronuncia ji) è stato usato per le parole “questo”, “suo”, “sua” (pronunciate qi o ji).
Nel mondo di lingua inglese, dal 1892 le parole cinesi (tranne i nomi propri e geografici) vengono solitamente traslitterati secondo una trascrizione fonetica in caratteri latini detta trascrizione Wade-Giles, dal nome degli orientalisti britannici Thomas Wade e Herbert Giles. I nomi propri venivano trascritti con criteri arbitrari, mentre i nomi di località seguivano le trascrizioni non sistematiche dell’Ufficio postale cinese. Dal 1958 nella Repubblica Popolare Cinese è stato adottato ufficialmente un altro sistema di trascrizione, con 58 segni, noto come pinyin (“trascrizione”), usato per trascrivere i telegrammi e nelle scuole primarie. Dal 1° gennaio 1979, la Xinhua (Nuova agenzia di stampa cinese) usa il pinyin in tutti i dispacci indirizzati all’estero.
Nel 1956, oltre alla semplificazione dei caratteri, il Governo cinese prese un’altra importante decisione linguistica: l’adozione di un sistema di traslitterazione basato sull’alfabeto latino. Tale sistema è denominato pinyin, che significa letteralmente “annotare il suono”. Il Governo cinese si è premurato di precisare che il pinyin non sostituisce i caratteri cinesi, ma piuttosto vuole essere di aiuto all’apprendimento della loro pronuncia: l’abbandono dei caratteri priverebbe le generazioni future di un ricco retaggio culturale. La trascrizione pinyin si fonda sulla pronuncia del cinese standard, vale a dire il dialetto di Beijing (Pechino), oggi insegnato in tutta la Cina.
La fonetica del cinese standard è semplice. Essa non presenta che un solo aspetto inusitato per i parlanti delle lingue europee: i toni. Come si è detto, il cinese standard possiede quattro toni, corrispondenti a un effetto della voce: ascendente, discendente, piatto e modulato (discendente e poi di nuovo ascendente). È la successione dei toni a conferire una particolarissima musicalità alla lingua parlata. Nel pinyin, i toni vengono contrassegnati per mezzo di segni diacritici posti al di sopra delle vocali. La letteratura cinese testimonia l’esistenza dei toni a partire dal VI secolo.
Da aggiungere infine che sino ad un epoca recente, la lingua cinese non possedeva termini corrispondenti a “filosofo” e “filosofia” come nella tradizione occidentale, parole che rimandano all’essenza stessa degli aforismi che dovrebbero essere per loro natura proprio filosofici e quindi anche etici o morali che dir si voglia. In ogni scuola il maestro (tzu) trasmetteva ai discepoli che si radunavano intorno a lui un insegnamento, una dottrina o metodo di condotta e in particolare di governo che veniva presentata come la più efficace in quanto la più conforme all’ordine naturale (Tao).
Scarica il libro Elementary Chinese Grammar ;
Per approfondire la grande saggezza della filosofia cinese potete anche leggere:
La storia dei caratteri Cinesi
Pensieri e riflessioni di Lao Tzu
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