Riflessioni di Carmelo Bene, pensieri, ragionamenti, critiche, provocazioni del grande e geniale attore, nonché magnifico autore dal mirabile uso del linguaggio e della parola.
Non sono mai nato, non mi vergogno di essere nell’equivoco italiota, non mi interessano gli italiani. Qualunque governo come qualunque arte (o tutta l’arte borghese), tutta l’arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno stato che si assiste fin troppo, se no alla mediocrità chi ci pensa? La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare, ecco. Si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? Non deve amministrare, deve lasciarlo fare a dei privati.
Carmelo Bene
Non mi vergogno d’essere nell’equivoco italiota. Non mi interessano gli Italiani, ecco. Qualunque governo, come qualunque arte, è borghese: tutta l’arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno Stato che si assiste fin troppo. “Se no alla mediocrità chi ci pensa?”. La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare: si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? […] Me ne infischio del governo, della politica, del teatro soprattutto [… ] Me ne frego di Carmelo Bene, io. Voi no, ma io sì. Sull’arte, Su Dio, si nasce e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia.
Carmelo Bene
Non ero (e non sono) ancora mai stato a teatro. Per me il teatro era solo quello d’opera, il “Margherita” a Bari, l’Arena a Verona, a Roma “Caracalla”, il “Politeama” di Lecce. Mi ci portavano i genitori, appassionati di lirica, quando andavamo in villeggiatura. Il teatro era cantato. Lo vedevo e soprattutto lo ascoltavo in radio. Ignoravo il teatro di prosa. E non ho mai più smesso di ignorarlo.
Carmelo Bene
È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Voi sputate su Einstein, voi sputate sul miglior Freud, sull’aldilà dei principi di piacere; voi impugnate e applaudite l’ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra, e del vostro godemichet, cui siete dannati. Ma io non vi sfido: non vi vedo!
Carmelo Bene
[Riferendosi agli attori del “teatro della rappresentazione”] Essi esibiscono, quasi un virtuosismo, la stupidità della propria facoltà mnemonica (anche leggendo) nient’affatto sfiorati dalla necessità urgente della memoria in quanto scrittura vocale. Essi dicono e ricordano altro. Dicono e non son detti. Non son parlati. Parlano […] riferiscono il testo […].
Carmelo Bene
Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di “crisi del teatro” e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi
Carmelo Bene
Credo di continuare un discorso laddove anche Antonin Artaud fallì. Io ho ripreso il discorso di Artaud, cioè quello della scrittura di scena, contro il testo; un testo, un teatro di testo, diceva Antonin Artaud, è un teatro di invertiti, di droghieri, di imbecilli, di finocchi; in una parola di Occidentali. […] Dopo secoli, quattro secoli (già però ventilata in Shakespeare ed in tutto il teatro elisabettiano) […] ecco finalmente la scrittura di scena. Una volta il testo veniva, viene tuttora, ahimè, in Occidente riferito; si impara a memoria; cioè è un teatro del detto, del già detto, e non del dire, che sconfessa il detto e si sconfessa anche in quanto dire. Si tende delle trappole il dire al dire stesso. Non è mai un dire del medesimo, comunque. Quindi la scrittura di scena è tutto quanto non è il testo a monte, è il testo sulla scena. Quindi, il testo ha la medesima importanza che può avere il parco lampade, la musica, un pezzo di legno, di cantinella qualunque, un barattolo. Questo è il testo nella scrittura di scena. Chiaramente affidata alla superbia dell’attore, dell’attore in quanto soggetto, non più dell’attore in quanto Io, cioè in quanto immedesimazione in un ruolo.
Carmelo Bene
Il tradimento è la cosa più nobile che si possa fare, soprattutto in teatro. Una volta il testo veniva, viene tuttora, ahimè, in Occidente riferito; si impara a memoria; cioè è un teatro del detto, del già detto, e non del dire, che sconfessa il detto e si sconfessa anche in quanto dire.
Carmelo Bene
Io dico che nessuno è più qualificato, nessuno ha più studiato di me, Laforgue, in questo caso, ecco, l’ho studiato da più di vent’anni. Perché un critico non può, vedendo diecimila spettacoli, approfondire vent’anni, un autore per vent’anni. Non è possibile. […] Non ammetto, quindi, questa spocchia del critico, il letterato che deve saperla più lunga del grandissimo attore. Il grandissimo attore la sa più lunga di lui, se no non sarebbe tale. Un attore incolto oggi non ha senso, non può occuparsi di scrittura di scena, non può fare la strada che io ho percorso, non può batterla. Non può essere il più grande attore d’Europa, come mi si dice, sulla scrittura di scena, se non è più colto dell’ultimo critico in sala.
Carmelo Bene
Il governo italiano non intende detassare i teatranti al botteghino e chiudere una buona volta per tutte il ministero dello spettacolo. Lo stato democratico, finanziando chiunque a tutti i costi, difende la platea dalla eventualità poetica dei mostri. Lo stato paga tutti, corrompe tutti indiscriminatamente a un solo prezzo: derubare, paralizzare uno solo (forse due?) altro; e questo altro può giuocare, se vuole e finché vuole, l’aristocrazia che gli è propria; può, se vince il disgusto, seguitare il suo sogno “vittimistico”, fatto incubo. Può seguitare a esprimere quella irritante irrappresentabilità che gli è propria, sul palcoscenico patibolare della (in)tolleranza sociale.
Carmelo Bene
Non si tratta solo di uscire dalla frastica: bisogna paralizzare l’azione, giungendo a quel che mi piace definire “l’atto”. Mentre l’azione è qualcosa di storico, legato al progetto, l’atto è oblio: per agire, occorre dimenticare, altrimenti non si può agire. In questo una parola come attore va decisamente riformulata. Mentre con attore s’intende per solito colui che fa avanzare l’azione, porgendo la voce al personaggio, io mi muovo in senso contrario. Vado verso l’atto, e cioè l’instaurazione del vuoto. Questo è il senso della sovranità o super-umanità attoriale. Ma per far questo si deve decostruire il linguaggio, spostando l’accento dai significati ai significanti che, come dice Lacan, sono stupidi, sono il sorriso dell’angelo. Occorre arrivare all’inconscio, a quanto non si sa, all’oblio di sé.
Carmelo Bene
Quando crediamo d’esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l’arroganza volitiva d’ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e, dal momento che non siamo noi dicenti ad argomentare in voce ciò che ci frulla in mente, così come non sei puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso medium equivoco di un discorso “altro” dal presupposto virgolettato “mio discorso”. Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato. Voce che perciò dice nulla.
Carmelo Bene
Con Benigni siamo amici da anni. Lui è grande nel “buffo”, ma lasciamo stare il “comico”. I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un’altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime.
Carmelo Bene
V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine – non necessariamente connessa alla nascita – in terra d’Otranto è destinarsi un reale-immaginario. E lì, appunto, nel primo dì di un settembre io fui nato. Otranto. Da sempre magnifico, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche. Ne è testimone la stupenda cattedrale. Il suo favoloso mosaico figurante l'”albero della vita”, dell’anno 1100.
Carmelo Bene
Diciamo che [la riscrittura scenica] è la cancellazione un po’ di tutto, se vogliamo. D’altra parte poi c’è anche rappresentato (per chi esiga un messaggio tout court) il rapporto re-Amleto-Orazio, questa coscienza, questo dilemma, la crisi stessa è lacerata in bigliettini. Orazio disapprova e cestina, ma che Amleto ha già cestinato affidandoli a Orazio […] Orazio è proprio questo cestino della coscienza. L'”essere o non essere” è cestinato di brutto […] Da questo stesso cestino vengono invece ripescate delle altre cose che vengono invece elette a trovarobato, a scena. È un teatro, appunto, che diventa oggettivo, dov’è il famoso “cogito ergo est.”
Carmelo Bene
Io mi occupo (e – purtroppo o per fortuna – si occupano di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. […] Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. “Codesto solo – dice l’Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. E questo si può dire. Chi dice d’esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: “il significato è un sasso in bocca al significante.” Qualcuno ha qualcosa da obiettare a questa definizione? La obietti con i lacaniani, la obietti con Lacan, la obietti con l’intelligenza, certamente! Ma per me l’intelligenza è miseria. Dire bugie, Sui cani, Intelligenza, La felicità è nel differirla, non nell’averla. Nell’averla c’è la noia di averla avuta.
Carmelo Bene
È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l’incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell’umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un’accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano.
Carmelo Bene
Non risolveranno mai niente con la democrazia. “Democrazia” nel senso di Hobbes, che la chiamava “demagogia”. Fu il primo a chiamarla col termine giusto. […] L’unica forma di governo che garantisca qualcosa cos’è? La democrazia senz’altro, è la più accettabile paradossalmente (se ne occupa Cioran molto bene). Ma vi domando io: cosa garantisce la democrazia che una dittatura non possa garantire? Certo, garantisce qualcosa: l’invivibilità della vita. Non risolve la vita. Chi sceglie la democrazia, chi sceglie la libertà, sceglie il deserto. Se la democrazia fosse mai libertà. Ma la democrazia non è niente; è mera demagogia. Ma qualora noi meritassimo una libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro e non occupazione sul lavoro. Anche se non si scappa mai – questo è il discorso di Deleuze sulla letteratura minore, su Kafka – dalla catena di montaggio; non si sfugge mai. […] L’oppressione della catena di montaggio si fa sentire anche in famiglia, […] financo nell’amore, nella rivoluzione ancora di più e soprattutto […] nell’entusiasmo.
Carmelo Bene
Spento l’amore, subito dimenticato. L’impeto della gioia e del dolore, i suoi propositi stessi distrugge da sé. Dove più esulta la gioia, più grave è il dolore. Mutiamo gioa e duolo per lieve cagione. Il mondo non è eterno. E non è cosa strana che muti col mutar di fortuna, l’amore. È problema rimasto mai sempre insoluto, se guidi amor fortuna o fortuna amore. Ma per tornare là donde siamo partiti, destino e volontà battono via i divergenti, così che i nostri piani van sempre diserti, perché nostro è l’intento, ma l’esito, no.
Carmelo Bene
Lo Stato italiano – nelle figure di Franz De Biase, oppure di Carmelo Rocca, oppure della Presidenza del Consiglio dei Ministri – si è sempre abusivamente, incompatibilmente, eccessivamente occupato (si è stra-occupato) del qui presente-assente, di me. Ne ha proprio abusato; non ne posso più di questa haute surveillance. Lo dico da quand’ero ragazzo. Io ho chiesto sempre allo Stato (nei libri, per iscritto, nelle carte da bollo, fuori delle carte da bollo): “Per favore, voglio essere trascurato”; sono “un poeta” da ragazzo, poi sono andato di là dal poeta, ero “un artista”, poi l’arte l’ho riconosciuta borghese e ho visto che l’arte era Carmelo Rocca.
Carmelo Bene
Il teatro, il grande teatro è un non-luogo soprattutto, quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell’etimo (da marthyr), per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò di cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro. Ecco che l’attore non basta più, il grande attore nemmeno. Bisogna essere una macchina, eh , come io (tra parentesi) l’ho definita, attoriale. Che cos’è una macchina attoriale? Comunque deve essere amplificata. L’amplificazione è un strana cosa. L’amplificazione non è assolutamente […] un ingrandimento, ma è come guardare questa pagina. Se io la guardo in questo modo, ecco, così, ecco io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l’avvicino, più i contorni svaniscono. I contorni svaniscono e non vedo più un bel niente.
Carmelo Bene
Diceva Flaiano, a scuola “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” diventa “Questa collina mi è sempre piaciuta”! Istruzione “obbligatoria”? Ma che siamo in Siberia? Ma perché bisogna istruirsi? Su che cosa? E poi chi deve istruirmi? Lo Stato? E chi è lo Stato? Ma chi l’ha votato questo Stato? Chi l’ha eletto? Come dice Deleuze, c’è un potere del teatro che è peggiore del potere dello Stato.
Carmelo Bene
In questa acquiescenza, in questo nullismo, in questo bagno di omologazione di Stato – purché si accetti aldilà del bene e del male, aldilà della coscienza applicata, aldilà della demagogia democratica, aldilà della democrazia in tutti i sensi deprimente e depressa, aldilà di nostalgie imbecilli di tiranni, ecc. – io trovo davvero che Poggiolini e Riina abbiano un magnete, un carisma (o càrisma che dir si voglia) che non hanno tanti condomini della nazione italiana. L’Italia è un condominio di piattume, di piattole rompicoglioni, insensate e squallide. Insignificanti. Non mi interessa il simbolico come linguaggio artistico, non mi interessa la poesia, il poetico, non mi interessa l’anima bella, non mi interessa nemmeno il quotidiano come linguaggio; mi interessa quale linguaggio? Il secondo: mi interessa il patologico. Riina e Poggiolini sono due sommi casi patologici. E in un’epoca che non produce più niente di umano, essi sono forse i due soli uomini degni della mia attenzione. Patologica attenzione, del mio studio clinico, del mio tributo. Tutto qui.
Carmelo Bene
Bisogna complicarsi la vita, diceva Eduardo. Ecco. Complicarsi la vita vuol significa crearsi una serie di handicap. Questa è la preparazione, al di là, a dispetto del testo. Non ci sono testi. A dispetto dell’umanesimo, del museo, dell’arte, sempre consolatoria, sempre decorativa. A dispetto della cultura che, ha ragione Derrida, […] nell’etimo deriva da colo, colonizzare. Quindi non c’è niente a dispetto dell’intelligenza, bisogna essere stupidi, infinitamente stupidi, per essere nell’abbandono.
Carmelo Bene
Disprezzo i giovani di questi ultimi trent’anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età (tutt’altro che oisive) pericolosamente volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell’autoconservazione. Questa perpetua assemblea è il confort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, “desiderando.”
Carmelo Bene
Troppa attenzione: con Eduardo [De Filippo] e Dario Fo Stato, alla mediocrità (ero pressoché ventenne) abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l’abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza. Oblio dello Stato, oblio di me. L’artista, soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar se stesso! Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre (che non l’ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l’ha sempre trattenuto e fermato), alla fine viene un ministro – proprio poliziotto – che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri deve campare, deve sopravvivere anche quella (se no, a quella mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato, “chi ci pensa?”). Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia (cioè a 65 milioni di Italiani), 65 milioni di Italiani (da imbecilli, cioè Italiani) votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello che è stato è Stato e quindi non è stato mai. E i fatti non sono se non nella stampa (nelle sue falsificazioni e omissioni) [Citando Derrida:] “La stampa informa i fatti non sui fatti.”
Carmelo Bene
Insieme a Eduardo, progettammo all’epoca un film da La serata a Colono, il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del Novecento. Sorbendo il tè nel suo attico al centro, Elsa ci sollecitava a realizzarlo, ritenendoci gli unici in grado di farlo. Testimone allora Carlo Cecchi, che fu vicino alla Morante nei giorni estremi del coma. Ricoverata in questa clinica da quattro soldi, senza più l’uso delle gambe, in miseria, dimenticata da tutti. Aveva rifiutato anche il televisore. Voleva restare lucida sino in fondo. Non so bene se e cosa Moravia abbia fatto per Elsa. L’unica cosa che ho sempre rinfacciato ad Alberto è di non aver saputo impedire quello scempio vano delle collette pubbliche e degli appelli umanitari nei giornali.
Carmelo Bene
Fare un forno, in teatro, vuol dire che non c’è nessuno. Quando facevo gli esauriti (quando ero esaurito io), dicevo: “Stasera è un bel forno!” Perché c’era la gente anche in piedi. Da soli è una ressa (come diceva Alberto Savino, “Due uomini fanno appena, oggi, una rissa” di questi tempi ormai in-drammatici e non più tragici). Io ho tanto disappreso. Non vi auguro di disapprendere tanto. Io applico quella agape schopenhaueriana – cioè quella compassione che non è cristiana, diciamo è più stoica, anzi è più gnostica, ecco – nei confronti della maggior parte di voi, meschini.
Carmelo Bene
Accidenti ai quattrini! Accidenti alla cartaccia moneta! Questa orrenda matrigna dell’arte, di tutte le arti. Mestiere infame questo dell’artista. Da sempre nell’eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo borghese fatalità del miserabile. Coniugato a tal punto che quest’ultimo poveraccio spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l’altro, cioè quello dell’artista, in un più intransigente rigoroso dizionario. A un individuo abbiente è rispettabile, non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto: arte. Arte: il più astruso e stupido tra gli espedienti.
Carmelo Bene
Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte che il termine attore ha il suo etimo nell'”àgere retorico” e nemmeno per sogno nel verbo agire. E nonostante la solarità della mia lezione questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare. Dove?
nell’identità, scorreggiona del teatrino occidentale. Patronale. Del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante, servilissima, venerazione dei ruoli; all’insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa, stucchevole frenesia del “moto a luogo”. Alla rappresentazione insomma dei codici di stato. Come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court.
Carmelo Bene
In un interessante – tra gli altri – passaggio, assimila profondamente e precisamente l’osceno al porno, dicendo che] nell’etimo, os-schené [è] “fuori scena”, il porno come eccesso, l’au-delà del desiderio, nevvero? […] Il porno si instaura alla morte del desiderio. Morto, sacrificato l’Eros, l’aldilà del desiderio, quando tu fai qualcosa aldilà della voglia, la voglia della voglia: questo è il porno. È una svogliatezza. Il più grande pornomane, pornografo, è Franz Kafka, non è Sade. […] Io mi considero nel porno. Il porno è il manque, l’altrove, il quanto non è, il quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia, è quanto non “gli tira”.
Carmelo Bene
La sera della prima successe un parapiglia infernale. Questo Greco, poco assuefatto al bere, si briaca di brutto […] L’apostolo Giovanni (il Greco) cominciò a dare in escandescenze […] In ribalta si alza la veste, mette il lembo fra i denti e comincia a orinare nella bocca dell’ambasciatore d’Argentina, della consorte in visone e dell’addetto culturale. Nel frattempo, si faceva passare le torte destinate al dessert e le spappolava in faccia a quel diplomatico e signora […] Fui condannato in contumacia [… e poi] assolto per essere estraneo ai fatti.
Carmelo Bene
Negli spettacoli s-concerti ho di-scritto la voce dell’inorganico, dell’inanimato, dell’amorfo, del non resuscitato alla smorfia dell’arte. Lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone siccome dato in quasi tutta l’espressiva cartolina del novecento poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso. Nessun problema finalmente, un incipit e di per se la fine.
Carmelo Bene
Se il socratismo dialettico caccia il miracolo dalla scena, per instaurarvi il testo razionale disastrosamente affidato alla lettura di attori ‘intellettuali’, il teatro è morto. È inutile linutile della grande estate tragica […] Il teatro è sfinita e insensata rappresentazione, cerimonia funebre officiata da un prete cialtrone (il nus di Anassagora), reggitore e ‘coordinatore del tutto’: il regista e un suo chierico; cercano entrambi ‘un letto in un domicilio altrui’. Figurarsi gli astanti: senza fede alcuna e nessuna parentela col defunto, convenuti un po’ a svagarsi a questo funerale a pagamento.
Carmelo Bene
Orson Welles lo ricordo soprattutto come un attore eccezionale, sublime Sono convinto che Welles avesse in testa un meraviglioso brusio, grazie anche al suo stupendo alcol, e che fosse un genio, ma non mi va di rinchiuderlo in una definizione: era troppo avventuriero, troppo fuori dagli schemi, troppo imprevedibile, perché noi oggi si possa fare un’operazione del genere. A me Welles ricorda Raffaello. Raffaello che cammina per le strade di Roma nel Cinquecento e che a ogni passo si deve fermare perché la gente gli bacia le mani, le vesti.
Carmelo Bene
Il teatro, il grande teatro è un non-luogo soprattutto, quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell’etimo (da marthyr), per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò di cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro. Ecco che l’attore non basta più, il grande attore nemmeno. Bisogna essere una macchina, eh , come io (tra parentesi) l’ho definita, attoriale. Che cos’è una macchina attoriale? Comunque deve essere amplificata. L’amplificazione è un strana cosa. L’amplificazione non è assolutamente […] un ingrandimento, ma è come guardare questa pagina. Se io la guardo in questo modo, ecco, così, ecco io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l’avvicino, più i contorni svaniscono. I contorni svaniscono e non vedo più un bel niente.
Carmelo Bene
Il teatro è nell’atto, cioè nell’immediato, in quello che un filosofo chiamò l’immediato svanire, la presenza e al tempo stesso, assenza. Questo è il superamento del grande attore. Cioè della macchina attoriale, di cui, ripeto, questo di Macbeth Orror Suite è soltanto una esemplificazione, tra le altre.
Carmelo Bene
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