Il mercato della fama, un articolo che analizza e spiega le vie del successo degli artisti attraverso la sociologia dell’arte, del mercato e dei critici famosi. Il testo era apparso nel blog di Andros alcuni anni fa, prima che il grande artista venisse a mancare, probabilmente anche per motivi dovuti proprio all’arte nelle sue varie forme.
Oggi come ieri, il problema degli artisti viventi è restare viventi. Non per tutti è così, ma in generale, per motivi economici o tentazioni suicide, la sopravvivenza – che spesso tende a diventare sottovivenza -, è un problema serio.
Con la parola sopravvivenza si possono intendere più cose. Per esempio, in senso letterale, cercare di non morire d’inedia, oppure cercare di resistere emotivamente allo scontro/incontro con gli altri, o ancora restare vivi tramite le proprie opere, quindi far sì che siano riconosciute e vivano più di chi le ha realizzate.
Per quelli che Wolfe definiva “radical chic” il mercato è sempre un male – persino quando li premia con tanti zeri -, ma per quanto ipocriti siano i radical chic, li trovo preferibili ai radical cheque, che in mente hanno solo il profitto, e non ne fanno mistero con caparbia volgarità. Sembra che le uniche possibilità siano fare arte per il mercato o fare arte per sé stessi, che sarebbe come dire fare sesso dietro compenso o dedicarsi alla masturbazione.
L’ideale sarebbe il sesso con amore, che in arte si traduce nel fare ciò in cui si crede, e in cui anche altri credono, ma l’amore ricambiato, si sa, è un fiore raro. Ci sarebbe sempre la possibilità di smettere, ma sappiamo tutti quanto l’astinenza sia una via difficile da percorrere, anche se viene spesso consigliata – lo sport preferito degli esseri umani è incoraggiare gli altri alla rinuncia delle proprie passioni, in favore di una vita più grigia possibile.
Eppure non è saggio spingere alla rinuncia, visto che sono proprio i pesci piccoli a mantenere il mondo dell’arte. A una risicata minoranza di artisti battuti all’asta a milioni di euro, corrisponde una stragrande maggioranza di artisti che produce arte che non ha speranza di essere considerata tale.
Visti i prezzi delle opere, solo i primi sembrerebbero avere rilevanza economica, ma non è detto che sia così. Come già detto, l’arte muove soldi in modi diretti e indiretti, e forse è proprio la massa di artisti ignoti a mettere in moto il vero business.
È soprattutto grazie a loro che si producono e si vendono tanti colori, tele e materiali per l’arte – sempre molto cari, tra l’altro. Sono i più assidui frequentatori di gallerie, musei e fiere – anche se non hanno alcuna speranza di esporvi – permettono a tante scuole d’arte, pubbliche e private, di esistere.
Comprano libri e riviste d’arte, dispense e manuali, e consentono a tanti siti e portali d’arte di sopravvivere. Sono loro a mantenere buona parte delle gallerie d’arte, quelle a pagamento – nella sola Milano ci sono oltre 200 gallerie d’arte, in gran parte sono vanity galleries che senza questo avventiziato artistico sarebbero costrette a chiudere.
Non sono certo i pochi artisti di brand a tenere in piedi tutte queste realtà economiche, ma gli emergenti, gli snobbati, gli ignoti destinati a restare tali e che spesso senza rendersene conto foraggiano e avallano il sistema che li rifiuta e li condanna all’anonimato.
Il panorama è vasto e mutevole, va dagli artisti a 360° ad altri che si accontentano di piegarsi a 90° al cospetto del mercato e dell’ambiente che conta, e a chi non ha gradi o è stato degradato.
Chi raggiunge il successo può finire nel dimenticatoio, chi non lo ha mai raggiunto difficilmente sarà scoperto dopo morto, perché se un tempo c’erano studiosi desiderosi di scoprire talenti offuscati dalla Storia, la nostra epoca richiede piuttosto di scoprire artisti viventi. Questo perché l’artista morto non può produrre, ci si deve accontentare di ciò che ha fatto in vita, invece un artista vivo può produrre in grande quantità.
Si spiega così anche l’attuale predilezione per gli artisti giovanissimi: farli diventare al più presto star ambite dai musei di mezzo mondo è il migliore degli affari, perché salute permettendo potranno produrre e firmare a lungo; quando staranno per morire ci sarà il colpo di coda finale, con l’impennata delle quotazioni, mercanti a fare gli scongiuri e collezionisti ad augurarsi le loro morti.
Alcuni artisti vengono scoperti oltre l’età pensionabile, ma è un’evenienza piuttosto rara, è meglio non farci affidamento. Pochi anni fa c’è stato il caso di Carmen Herrera, pittrice che solo a 94 anni ha potuto godere di un certo successo. Dopo aver dipinto per tutta una vita, è riuscita a vendere il primo quadro a 89 anni, e da allora ha attratto l’attenzione dei collezionisti americani.
In poco tempo, le sue opere sono finite nei più prestigiosi musei americani; il Moma l’ha inserita in una mostra tra i più importanti artisti latinoamericani e l’inglese The Observer l’ha definita la più grande scoperta dell’ultimo decennio. Anche Carol Rama è stata scoperta tardi, a 80 anni, e non a caso ha affermato: «La rabbia è la mia condizione di vita da sempre. Sono l’ira e la violenza a spingermi a dipingere.»
Anche se non è saggio sperare in un ribaltone che renda giustizia al talento ignorato, bisogna comunque ammettere che la possibilità esiste, e gli esempi illustri non mancano.
Soprattutto nel ventesimo secolo i capovolgimenti di giudizio sono stati frequenti: ciò che era visto come grande arte nel volgere di pochi decenni è diventato immondizia, e viceversa. La fama degli artisti è sempre appesa a un filo – e come se non bastasse, spesso a tenere il filo è il mercato.
Lorenzo Lotto già in vita ebbe problemi, perché schiacciato dalla fama di Tiziano e anche perché sospetto di luteranesimo. Riceveva poche commissioni e per liberarsi delle opere invendute arrivò persino a organizzare una lotteria, mettendo in palio dipinti e disegni: nomen omen. Fu rivalutato solo sul finire dell’Ottocento, quando Bernard Berenson e altri critici iniziarono a interessarsi a lui.
Marcello Venusti fu apprezzato nel Cinquecento, ma nell’Ottocento fu considerato un imitatore di Michelangelo e messo da parte, finché Federico Zeri diede il via a una sua rivalutazione. Vermeer stava per sparire nel nulla, a lungo gli storici lo hanno snobbato, preferendogli artisti come Gerrit Dou, che oggi è invece meno apprezzato.
La fama di El Greco si perse subito dopo la morte, e fino al Novecento fu considerato un pittore mediocre. Anche la fama di Giuseppe Arcimboldo andò perduta alla morte, e anche lui dovette attendere il Novecento per un ripescaggio.
Per il Pinturicchio fu un continuo altalenare, a volte apprezzato, a volte attaccato, già Vasari ne sminuì l’arte e fino all’Ottocento rimase all’ombra, quando iniziò a entrare nei musei e nelle grandi collezioni private. Anche la fortuna critica del Canaletto fu altalenante.
La reputazione di Caravaggio, apprezzato e contestato in vita, fu sottoposta a una demolizione promossa dall’astioso rivale Giovanni Baglione e dal critico Giovanni Bellori, influenzato da Poussin, che odiava la pittura di Caravaggio. La sua fama svanì presto, e le opere rischiarono spesso di andare disperse o distrutte, e dovette attendere gli inizi del ventesimo secolo per riemergere.
Johan Zoffany, artista rispettato nel Settecento e poi dimenticato, solo negli ultimi anni ha goduto di una rivalutazione, mentre Fragonard è stato a lungo ignorato, e spesso i libri di storia dell’arte non lo hanno neanche nominato. Il primo a riscoprirlo fu Billet Doux con un articolo del 1905 sul Cronier sale in Paris, ma fu rivalutato soprattutto da mercanti come Wildenstein e Duveen.
Anche Boucher e Watteau, a lungo maltrattati dagli storici, devono il ripescaggio ai mercanti. William Blake è rimasto nell’ombra per più di un secolo dopo la morte, solo nel Novecento è stato rivalutato da critici come John Middleton Murry e Northrop Frye.
Altri sono stati famosissimi in vita e dimenticati quasi del tutto in seguito, come Ary Scheffer, tra i più ricchi e famosi nell’Ottocento e oggi poco noto, oppure John Rogers Herbert, pittore ai suoi tempi noto quanto Reynolds e Turner, e oggi finito nel dimenticatoio.
Gli impressionisti sono stati insultati, poi esaltati e in tempi recenti di nuovo attaccati; al contrario i pompier sono stati prima strapagati, poi ignorati e oggi sono di nuovo apprezzati. Di Picasso si continua a dire tutto il male e tutto il bene possibile, mentre di Duchamp è stato a lungo sottovalutato l’impatto sull’arte contemporanea – e spesso lo è tuttora.
È chiaro che noi consideriamo i rivalutati – come Vermeer, El Greco, Arcimboldo o Caravaggio – come dei grandi artisti ingiustamente dimenticati e poi riscoperti, ma se nessuno li avesse riscoperti per noi sarebbero degli ignoti o degli artisti di secondo piano come le migliaia di altri dei quali nessuno ricorda i nomi; e che potrebbero però essere ripescati in qualunque momento.
Sarebbe forse anche il caso di ridimensionare i grandi artisti e rivalutare quelli minori. Anche gli artisti non geniali sono importanti, e persino quelli mediocri e quelli pessimi, se non altro perché fanno risaltare il valore di quelli che non sono mediocri né pessimi.
Una storia dell’arte fatta solo di capolavori – anche ammesso si possa essere tutti d’accordo sulla selezione -, diventerebbe una storia della mediocrità: un capolavoro è tale perché spicca in un mucchio di opere meno rilevanti, se il mucchio fosse composto solo da capolavori nessuno di essi potrebbe mai emergere, sarebbero tante gocce in un mare indifferenziato.
Un capolavoro poi dice meglio o con più forza ciò che altre opere hanno già detto con minore energia o minor successo, ma se qualcuno non l’avesse detto la prima volta, anche se male, forse a nessuno sarebbe venuto in mente di dirlo di nuovo in modo più efficace.
Non è l’ipocrita consolazione del mediocre, è un dato di fatto che si legge di continuo tra le righe della Storia: nessuno sa il nome dell’oscuro artista che ha inventato l’affresco, eppure senza il suo apporto Giotto, Raffaello e Michelangelo non avrebbero mai potuto portare l’affresco ai più alti livelli.
Senza nulla togliere alla storia dell’arte e a chi l’ha scritta, credo che se la riscrivessimo inserendo solo gli artisti ignorati ci troveremmo tra le mani una storia altrettanto ricca e coinvolgente. Quando si accusa l’arte contemporanea di essere autoreferenziale bisogna ricordare che anche l’arte del passato la viviamo in modo autoreferenziale: i grandi sono grandi perché li consideriamo tali.
Quello che inoltre sfugge ai più è che in quasi tutte le riscoperte, i rilanci e le rivalutazioni, c’è lo zampino del mercato. Talvolta il legame è strettissimo, come lo fu nel caso del critico e storico Berenson, a lungo stipendiato dal mercante Duveen, con tutte le ambiguità e i conflitti etici che ne conseguirono. Dietro un esperto che rivaluta c’è un mercante che suggerisce – per convinzione o per gusti personali, ma anche e soprattutto perché ha i depositi pieni di opere del rivalutato.
Ho già citato Duveen e Wildenstein, che hanno ripescato Fragonard e Watteau, mentre Durand-Ruel, innovativo mercante d’assalto, supportò e impose gli impressionisti, ma gli esempi sono tanti e arrivano fino ai giorni nostri.
Negli ultimi decenni Warhol è diventato una presenza fissa – direi ossessiva – nel mercato delle “grandi mostre”, grazie all’opera del collezionista-mercante Charles Saatchi, che prima di lanciare la YBA si occupava di artisti americani. Negli anni Ottanta ci fu il rilancio mondiale di Schiele, grazie agli sforzi del mercante Serge Sabarsky, che con una serie di mostre riuscì a farne impennare le quotazioni.
Sono cose da tenere presente, ogni volta che si compra il biglietto per vedere una mostra. Nel ventesimo secolo la spinta per la scoperta di artisti sconosciuti o ignorati del passato è spesso arrivata da mercanti che avevano fatto incetta delle opere di quegli artisti. Le cose si complicano ancora di più quando entrano in gioco influenze ideologiche che spingono a valutare in modo pregiudiziale – nel bene o nel male – una certa tipologia di artisti: donne, gay, indiani, africani, orientali, ecc.
Così come è vero che di solito tutto ciò che sta al di fuori della narrazione occidentale dell’arte viene ignorato. Gli artisti entrano nella Storia anche perché parte di un fermento culturale fortemente identificato con le aree di potere, così alcuni artisti sono stati sottovalutati solo perché attivi fuori da quelle zone.
Impossibile stabilire fino a che punto tutto questo abbia influito sulle scelte degli storici e su alcune rivalutazioni e dimenticanze, ma di sicuro ha influito. Inoltre, l’artista non può fare affidamento su alcuno, né sugli esperti, che scelgono e decidono in base a logiche opportunistiche che con merito, valore e qualità non hanno a che vedere, né sul grande pubblico, che nel migliore dei casi si disinteressa dell’arte e nel peggiore si sente esperto e fa della propria ignoranza una forma di arroganza.
In questo le cose non sono diverse da come sono state in qualsiasi passato, come nota anche Hauser: «Sarebbe sbagliato credere che le masse, anche se non furono sempre così sterminate come sono oggi, in altri tempi pensassero o sentissero diversamente. Esse non ebbero mai maggior capacità di giudizio, né un gusto più autonomo e più sicuro, e non ebbero mai niente in contrario a farsi predigerire il loro nutrimento spirituale.»
In definitiva, la fama degli artisti e il loro eventuale ripescaggio dal dimenticatoio dipendono dai gusti e dagli interessi economici di questo o quel mercante, di questo o quel collezionista. Alcuni ottimisti sono convinti che alla fine il merito venga sempre riconosciuto, come lo era Hughes, che scrisse: «Nella storia dell’arte, in ogni epoca, ci sono state glorie immeritate e artisti ignorati a torto. Ma sono fenomeni temporanei; a lungo andare le ingiustizie, generalmente, vengono sanate.»
Fa quasi tenerezza che un critico così disincantato possa aver coccolato una convinzione così naif; è facile pensare che le riabilitazioni sanino i torti, e sentirsi quindi a posto con la coscienza, ma gli artisti sono esseri in carne e ossa, se le opere possono essere rivalutate anche millenni dopo l’artista non ha che pochi decenni a disposizione, e in genere preferirebbe viverli facendo la propria arte senza tanti bastoni tra le ruote.
Una volta finiti gli anni da vivere infatti non ci sono altre possibilità. L’idea che il tempo sia un gentiluomo è confortante, ma dà un falso senso di armonia ed equilibrio. Aiuta a pensare che il “bene” vinca sempre, è conveniente. Così come a nessun vincitore conviene credere al caso e a nessun perdente conviene credere al talento.
È ingenuo pensare che il tempo e la Storia facciano giustizia: non c’è alcuna possibilità di giustizia, sia perché certe verità sono labili come un punto di vista, sia perché una riparazione post mortem non fa giustizia e sia perché qualsiasi piega la storia dell’arte decida di prendere, la prenderà comunque a favore degli interessi di alcuni, non certo a favore di un fiabesco ideale di giustizia o di meritocrazia. È questo uno degli aspetti più amari dell’arte.
Anche l’arte è negli occhi di chi guarda, ciò la rende geneticamente ingiusta; non ci si può attendere che il duro lavoro venga premiato, meno ancora che il talento sia riconosciuto, perché ciò che è talento per Tizio può essere incapacità per Caio, e se Caio è in una posizione di potere sarà lui a decidere chi ha talento e chi no. Inoltre chi è fuori dai centri di potere, chi produce arte troppo lontana da quella richiesta, chi semplicemente non riesce a farsi notare e tanti altri ancora non avranno mai alcuna possibilità di avere giustizia.
Il fuoco dell’arte è ingiusto, scalda alcuni e carbonizza i restanti; l’artista deve improvvisarsi mangiafuoco, e cercare di maneggiare le fiamme senza ustionarsi.
Lezioni d’autore con Salvatore Settis – Come funziona il mercato dell’arte
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