Arte e artisti del falso, un articolo che ripercorre la storia dell’arte del falso e le opere dei grandi artisti falsari dal mondo antico ai tempi recenti.
Mundis vult decipi, ergo decipiatur. (The world wants to be deceived, and so it is.)
Sebastian Franck Paradoxa (1533)
Tra falsi, errori, rivalutazioni opportunistiche e idealizzazioni nostalgiche, l’arte del passato è per lo più una fiaba che con la realtà ha poco a che vedere.
Andros
Gli amanti dell’antiquariato sappiano che le antichità sono sempre di fabbricazione moderna.
Gustave Flaubert
La politica egalitaria del lusso per i cinesi consiste nel cercare di dare a tutti i cittadini del mondo la possibilità di aquistare un bel Rolex falso.
Carl William Brown
Se si è coinvolti nella vita, la si vede poco chiaramente; la vista è oscurata dalle sofferenze, o dal godimento. L’artista, secondo me, è una mostruosità, qualcosa al di fuori della natura.
Gustave Flaubert
In passato il falso non era coperto dal biasimo come oggi, non era visto come un tremendo crimine. Per Platone gli artisti erano tutti falsificatori, imitatori della natura, di una realtà della quale non sapevano nulla se non il suo aspetto esteriore; c’è però da dire che Platone non stimava gli artisti, e non perdeva occasione per sminuirli. La storia dei falsi artistici iniziò più o meno nel IV secolo a.C. quando Grecia ed Egitto cominciarono a smerciare arte sulle coste del Mediterraneo.
In Grecia, in particolar modo, il falso si fece spazio anche prima, quando gli artisti riuscirono almeno in parte a superare lo stigma sulla manualità che pesava sull’arte, e a ottenere un briciolo di stima, cosa che permise loro di apporre le firme. Le opere non erano più sufficienti, dovevano anche essere firmate da un artista di fama, ecco quindi dilagare le contraffazioni. In un certo senso, il falso nasce con la firma. Vi si dedicarono da subito anche artisti rinomati; si sa che Fidia firmò un’opera dell’allievo Agoracrito per aiutarlo a venderla, e sembra che Apelle abbia firmato opere di Protogene.
Nel quattordicesimo secolo in Italia furono ritrovate varie statue di epoca romana, che suscitarono scalpore e ammirazione; questo fu l’inizio non solo del ritorno all’arte classica e al naturalismo, ma anche dell’esplosione del fenomeno della falsificazione.
Tra i falsari del Cinquecento i più famosi erano Giovanni Calvino e Pirro Liborio, che traevano profitto da un momento storico che vedeva gli scambi commerciali incrementare di giorno in giorno.
Gli artisti producevano non solo per la Chiesa, ma anche per principi, signori, banchieri, e persino per conto proprio – cosa che fece Michelangelo, inventando la figura dell’artista indipendente. Il mercato dell’arte viveva un momento felice, e la richiesta di opere cresceva di continuo, spianando la strada alle contraffazioni.
Anche la nascita della figura del mercante, spesso persona senza scrupoli, favorì l’attività dei falsari. La natura truffaldina dei mercanti d’arte era ben nota già a quel tempo, e non mancano documenti che mostrino quanta poca fiducia gli acquirenti avessero del loro operato. Per esempio una lettera del banchiere bavarese Jacob Fugger, nella quale raccomandava di adottare tutte le precauzioni possibili nell’acquisto di sculture classiche dagli antiquari di Monaco, perché erano bravissimi nel rifilare falsi.
Nel Cinquecento la falsificazione era pratica diffusa tra gli artisti, e lo è stato anche in seguito: persino Michelangelo, Andrea del Sarto e Bruegel, tra gli altri, si dedicarono a questa attività. Da giovane Michelangelo falsificò dei disegni, che poi sostituì con gli originali conservati dal Ghirlandaio, e scolpì alla maniera classica un cupido dormiente, opera che venne valutata trenta ducati. In seguito, opportunamente patinata, fu venduta a Roma come opera antica, a un cardinale, per cento ducati. Il cardinale infine scoprì l’imbroglio, lodò Michelangelo per la bravura, ma pretese la restituzione dei ducati dall’intermediario, che venne arrestato. L’opera passò al duca Valentino e poi alla marchesa di Mantova, per poi sparire nel nulla.
Secondo il falsario Eric Hebborn, si troverebbe in una grande collezione, considerata ancora oggi una scultura antica. Luca Giordano, per vendicarsi di un collezionista che disprezzava i suoi lavori, dipinse due falsi, di Tiziano e di Tintoretto, e glieli offrì. Il collezionista si dimostrò interessato, a quel punto Giordano gli rivelò la verità, umiliando così chi non aveva creduto nel suo talento. Rubens era anche collezionista d’arte, e aveva l’abitudine di ritoccare i dipinti altrui, di solito quadri antichi scadenti che lui migliorava. Il senso del diritto d’autore e soprattutto il modo di considerare le falsificazioni e di preservare il passato erano alquanto diversi da quelli di oggi.
C’erano poi i falsi “di bottega”: l’artista si faceva aiutare dagli apprendisti, principianti dediti a pulire e svolgere lavori di poco conto, e dagli aiutanti, che spesso facevano una parte consistente del lavoro. Gli aiutanti dovevano eseguire copie delle opere del maestro, anche per apprenderne a fondo lo stile, e quando capitava che un quadro avesse più di una richiesta, l’artista a volte decideva di vendere a uno dei collezionisti la copia realizzata dall’aiutante, ma firmata da lui. Inoltre, gli aiutanti che avevano realizzato queste copie talvolta riuscivano a sottrarle, e quindi finivano nel giro dei falsi. In altri casi erano gli aiutanti a realizzare di sana pianta la commissione assegnata al maestro, che si limitava a firmare.
Non che i falsi non impensierissero gli artisti, anzi. Dürer è stato tra i primi a tentare di mettere un freno, inserendo nelle proprie litografie un monogramma ormai celebre, ma questo non fermò i falsari, che copiarono anche quello. Nel Liber Veritatis, Lorrain riportava miniature dei dipinti eseguiti, segnando per chi li avesse realizzati e quando, questo perché i suoi dipinti erano copiati a più non posso, e molti si recavano da lui per autenticare opere che non aveva mai realizzato. Sébastien Bourdon era il principale plagiario di Lorrain, e si vantava di essere più rapido lui a copiare che Lorrain a fare; divenne poi uno dei fondatori dell’accademia francese. Anche altri artisti ricorrevano allo stratagemma di Lorrain di tenere un libro, come Elisabetta Sirani.
Falsi e oggetti d’arte rubati circolarono in gran quantità nel Cinquecento e nel Seicento; gli artisti disoccupati o mal occupati erano tanti e vivevano in condizioni dure, e molti di loro si volgevano alla falsificazione. Più che le opere d’arte erano però le firme false sui documenti a preoccupare le autorità. Nel ‘500 una firma falsificata, in Inghilterra, poteva costare la gogna e persino l’amputazione del naso o delle orecchie, nonché l’ergastolo.
Nel 1634 fu introdotta la pena di morte per quel reato; e infatti il reverendo W. Dodd fu giustiziato per una firma falsa su un titolo di credito. Anche lo scultore e pittore Veit Stoss se la vide brutta per la falsificazione di una firma su un documento, che nella Norimberga del ‘500 era un crimine punibile con la morte; solo grazie all’intercessione di numerosi estimatori l’artista se la cavò con una bollatura a fuoco sulle guance. Per quanto riguarda l’arte, invece, fino al Settecento non è sempre stato considerato disdicevole essere falsari, tanto che alcuni artisti per farsi pubblicità svelavano le proprie falsificazioni.
Come scrive Rudolf Wittkower: «Nessuno dei falsari del Cinque e Seicento doveva vivere nel timore della prigione: sola punizione era la condanna morale e la perdita delle protezioni. Ci vollero più di due secoli perché la legge ponesse riparo a una situazione che minacciava di sfuggire sempre più di mano. Solo quando le denunce e le rimostranze di Hogarth portarono in Inghilterra alle leggi del 1735 sul diritto d’autore per le incisioni (Engraving Copyright Acts) si cominciò a reagire, e a proteggere legalmente dal saccheggio almeno un settore della produzione artistica.
Scultori e pittori dovettero attendere ancora più a lungo. Prima della legislazione sulla proprietà artistica bisognava aiutarsi coi propri mezzi.» Ancora nell’Ottocento però i falsi erano visti come una singolarità del mondo dell’arte, non scandalizzavano, e gli artisti che vi si dedicavano non erano deprecati. Allora ci si preoccupava di più per l’arte considerata pessima, e di meno delle opere false.
Proprio sul finire dell’Ottocento la figura del falsario diventa sempre più negativa, e infine viene visto come un truffatore che attenta all’arte stessa. Questo perché il mercato dell’arte si espande, assumendo le caratteristiche di mercificazione specializzata che ben conosciamo, e ciò porta a guardare con sospetto la falsificazione, che rischia di mettere in difficoltà un meccanismo che si basa in larga parte sulla firma e la sua autenticità.
Il valore viene ricercato nell’opera e nel genio di chi l’ha realizzata, è quindi importante che essa sia autentica, come è fondamentale la firma dell’artista, al punto di diventare la parte più importante dell’opera. Se si tratta di un falso, crolla tutta l’impalcatura di aspettative, teorizzazioni e pretese di unicità, di talento e di genio, che rendono l’arte così speciale agli occhi dei più, ma soprattutto si annullano le interpretazioni e gli interpreti stessi, e quindi si rende evidente la falsificazione insita nel lavoro degli esperti d’arte. Da allora, il falsario smette di essere considerato un artista potenzialmente valido quanto altri, e diventa un semplice criminale.
La falsificazione di opere d’arte in Italia fino al 1939 non aveva una figura di reato ad hoc, e per punirla si utilizzava l’articolo sulla “falsità in scrittura privata” del Codice penale. Solo nel 1971 fu emessa una legge in grado di disciplinare la falsificazione di opere d’arte. Attualmente la pena va da tre mesi a quattro anni, e la multa oscilla tra i 103 e i 3.099 euro, oltre al pagamento della pubblicazione della sentenza su tre quotidiani nazionali. Solo dal 2001 è delineato con chiarezza che anche i falsari di arte contemporanea sono soggetti alle stesse pene.
Con l’allontanamento dalla pura estetica, questa ossessione per la falsificazione è aumentata, perché con riferimenti estetici così altalenanti e relativi, il valore dell’opera può essere garantito unicamente dalla firma, dall’attribuzione, che rimane l’unico punto fermo; a patto che un falsario non ci metta lo zampino. E il falsario lo zampino ce lo mette eccome, in vari modi. Di solito falsifica la firma, o restaura un’opera modificandola per farla sembrare di un artista più quotato, oppure cerca di retrodatare opere comunque antiche, o cerca di farle attribuire a un artista dello stesso secolo ma molto più noto.
Il falso costruito dal nulla, usando materiali, tecnica e stile di un secolo passato è raro perché difficile da realizzare, mentre è più frequente per le opere moderne e contemporanee, non solo perché a volte sono tecnicamente più facili ma anche perché è più semplice reperire i materiali, e non devono essere invecchiati artificialmente.
In molti casi invece si tratta solo di attribuzioni errate, e gli artisti le cui opere sono state attribuite ad altri diventano falsari post mortem, senza saperlo e senza volerlo. Corot è uno degli artisti più imitati e falsificati, al punto che spesso anche i suoi disegni autentici sono stati considerati imitazioni, per andare sul sicuro; d’altro canto neanche gli esperti sono una garanzia, visto che spesso prendono cantonate e che, come scrisse lo storico Harold Bayley: «Ciò che gli esperti sostengono oggi, di solito smentiscono domani.»
Nel 1929 migliaia di disegni di Corot furono al centro di un grande scandalo, ma i falsi iniziarono a circolare subito dopo la sua morte, e in una decina d’anni si scoprì l’esistenza di un intenso traffico di “Corot”, che continuarono a diffondersi per almeno una cinquantina d’anni. Corot del resto viveva la cosa in modo disincantato: era ben contento quando quadri altrui erano presi per suoi, e per questo fu accusato di alimentare le contraffazioni. Pare che non lesinasse ritocchi sulle opere dei propri allievi, e se questi alla fine gli chiedevano di firmarle, Corot, dimostrando in fondo una certa generosità, non si tirava indietro.
Non è un caso unico, Boucher firmava le opere dei propri allievi, anche Ingres firmò una copia di una propria opera realizzata da un allievo, Amaury-Duval, mentre gli impressionisti erano divertiti dai falsi che circolavano, non se ne preoccupavano affatto.
Quando William Sickert si imbatté in un proprio quadro in vendita, che lui aveva lasciato incompiuto e che qualcuno aveva completato e firmato, disse: «Io stesso non avrei potuto migliorarla ulteriormente. Ora non ho più bisogno di finire i miei quadri
Vorrei soltanto conoscere il nome dell’eccellente artista che completa e firma le mie cose.» Anche Picasso affermò: «Se un falso fosse davvero buono, ne sarei felice; prenderei subito la penna per firmarlo.»
Una cosa simile deve averla pensata de Chirico, che un po’ per senilità, un po’ per convenienza, finì per rifiutare la paternità di opere autentiche e per riconoscere come propri dei falsi. Ogni volta che un suo dipinto non gli piaceva più, anche se autentico, lo dichiarava falso, e viceversa, causando un bel po’ di problemi al mercato delle proprie opere. Secondo gli specialisti, su tre de Chirico in commercio, o presenti nei musei e nelle collezioni private, due potrebbero essere falsi.
Nel 1977 si scoprì a Milano un’organizzazione che aveva prodotto migliaia di falsi de Chirico. Erano arrivati a farsi autenticare le opere da de Chirico in persona, al quale veniva proposta una sua tela originale montata su una tela bianca, da firmare sul retro, in questo modo l’artista senza saperlo firmava la tela bianca, sulla quale poi il falsario eseguiva un nuovo dipinto.
Il falso delle stampe d’arte ebbe invece un’impennata anche grazie ad artisti come Dalì, che pare abbia firmato ventimila certificati di garanzia per delle litografie che non aveva mai neanche visto. Il mercato è stato invaso da montagne di stampe di Dalì, Matisse, Mirò e altri ancora. Il numero delle opere ufficialmente accreditate ad alcuni artisti, come Mario Schifano, Jackson Pollock o Piero Manzoni, è talmente alto da far pensare che dopo morti abbiano creato più che da vivi. Lo stesso si può dire di alcuni artisti del lontano passato: di Rembrandt, per esempio, si calcolò vi fossero circa 600 dipinti disseminati nei musei di mezzo mondo, e più di 350 custoditi in varie collezioni private, cosa piuttosto strana, dal momento che secondo gli esperti in tutta la vita ne dipinse solo 320.
Secondo Alice Beckett, che nel 1995 pubblicò “Fakes: forgeries and the art World” addirittura il 40% delle opere dei musei e delle case d’aste sarebbe costituito da falsi. Nei passaggi delle varie compravendite, può inoltre capitare che anche le opere originali diventino false. Secondo Christian Herchenröder, le opere spesso subiscono quelli che potremmo definire interventi invasivi di chirurgia estetica: «Si sottopongono così a operazioni di pulitura e imbellettamento quadri fortemente anneriti, ricoperti di svariati vecchi strati di vernice e solo in parte conservati, facendoli assomigliare a tele o tavole fresche. Sono cure di restauro violente che spesso non lasciano intatti nemmeno i rudimenti dell’originale pennellaggio.
Ho visto personalmente brillare fresche e ringiovanite sulle pareti delle gallerie certe opere di cui in precedenza, visionando le esposizioni d’asta, avevo notato l’estremo stato di decadenza. Ora sembravano appena scese dal cavalletto. Nel 1976, un lotto di Sotheby comprendeva un paesaggio brasiliano di Franz Post, con indigeni e rovina coperta di vegetazione. L’angolo inferiore sinistro, la parte di cielo e il finissimo disegno del fogliame non soltanto erano sfregati, ma in parte cancellati e sfogliati al punto da scoprire il legno della tavola. Sei mesi più tardi avevo rivisto il quadro a una fiera d’arte: non si erano fatti solo ritocchi, ma il fogliame era stato nitidamente ridipinto, quasi che il quadro non fosse mai stato danneggiato.»
Il mercante Daniel Wildenstein raccontò di un certo Gérard che negli anni Venti: «Era un perfetto criminale. Non che i suoi quadri fossero falsi. I quadri erano autentici, ma lui li faceva ritoccare dal suo restauratore. E quello li massacrava. Le ballerine di Degas, per esempio, in origine hanno delle affascinanti teste di scimmietta. Bene, lui faceva ricoprire col pastello le teste di scimmia delle ballerine, e le faceva sostituire con delle teste di bambola.
Inoltre, questo Gérard non voleva assolutamente vedere mucche in un quadro. Con lui le mucche non avevano scampo. Diceva al suo aiutante: “C’è una mucca in quel paesaggio! Sopprimila! Le mucche non le vuole più nessuno!” Questi dipinti con le mucche cancellate si riusciva ancora, in qualche caso, a salvarli a recuperare la mucca da sotto il prato. In tutta la mia vita non ho mai visto niente di paragonabile agli arrangiamenti di Gérard. Era sconvolgente. Fortuna che i pittori interessati erano tutti morti. Degas, per esempio, se avesse visto sulle sue ballerine una testa di bambola, una sola, l’avrebbe ucciso.»
Non è sempre il falsario ad avere la meglio. Un mercante offrì ad Alfred I. Dupont, ricco imprenditore della Dupont Company, un quadro con una sua trisavola, per il quale chiedeva 25.000 dollari. Dupont notò che era dipinto in due stili diversi e rifiutò l’offerta, il mercante allora ribassò più volte il prezzo, fino a chiedere solo 400 dollari. Dupont pagò, e dopo aver fatto analizzare il dipinto scoprì che era stato in effetti ritoccato, ma che sotto la pittura recente c’era un dipinto del Seicento che si rivelò essere opera di Murillo, e che fu valutata per ben 150.000 dollari.
In tempi più recenti si è talvolta sfiorato il ridicolo. Nel 1986 la polizia sequestrò le opere dell’artista americano J.S.G. Boggs, esposte alla Young Unknowns Gallery di Londra. Si trattava di disegni a pastello che raffiguravano banconote: da dieci, da cinque e da una sterlina. Benché le banconote fossero disegnate su un solo lato e fossero chiaramente firmate – e per quanto ben fatte non avrebbero mai potuto ingannare alcuno -, Boggs fu accusato di falsificazione, e portato in tribunale dalla Banca d’Inghilterra.
Il grottesco processo vide come testimoni tre nomi noti del mondo dell’arte, Michael Compton, che aveva lavorato per la Tate Gallery, René Gimpel, famoso mercante, e Sandy Nairne, dell’Arts Council. I disegni erano inoltre in vendita al valore delle banconote che ritraevano, e l’artista li usava come effettiva moneta, per degli scambi con i clienti, esponendo infine i risultati di queste transazioni. Un’efficace provocazione, per sottolineare il nostro modo ipocrita e venale di concepire l’arte, cioè parlarne come se fosse un valore spirituale, ma nei fatti considerarla una valuta: come ci sono il dollaro, l’euro e la sterlina, c’è anche l’arte. La cosa si risolse con un proscioglimento, ma Boggs si ritrovò più volte in situazioni simili negli anni che seguirono.
Tornando ai veri falsari, c’è da dire che per loro non è sempre rose e fiori, la carriera di un falsario può essere lastricata di soldi, ma può anche essere vista come una carriera destinata al fallimento: se viene scoperto vuol dire che non ha operato al meglio, se non viene scoperto, nessuno sarà a conoscenza della sua esistenza e del suo operato. Si tratta di una rinuncia totale del riconoscimento del proprio valore d’artista. Nonostante ciò, alcuni falsari sono diventati noti, e persino delle celebrità.
Nelle prossime tre puntate, riassumerò le storie – talvolta non allegre – di alcuni dei più noti falsari.
Han Van Meegeren, nato a Deventer nel 1889, è forse il più celebre falsario mai esistito. Chiuso di carattere, sin da piccolo sviluppò un interesse per il disegno e un’insofferenza nei confronti dell’autorità, fomentata anche dal padre, contrario ai suoi interessi artistici. Difatti, mentre la madre lo incoraggiava, il padre disprezzava la sua voglia di diventare artista, lo insultava chiamandolo “incapace” e “buono a nulla”, e gli strappava i disegni. Accettò comunque che studiasse architettura, perché secondo lui quella era perlomeno una “professione decente.”
Nonostante ciò, l’arte divenne la sua strada, e si fece le ossa con Bertus Korteling, un pittore tradizionalista che odiava l’arte d’avanguardia e che lavorava seguendo i metodi dei pittori del Cinquecento e del Seicento. Il giovane allievo apprese con entusiasmo quelle tecniche, così come imparò a disprezzare Van Gogh e Cézanne, a loro avviso colpevoli di aver dato il via alla degenerazione dell’arte. Erano i tempi della pittura astratta, di Mondian, del Dada, del De Stijl, e i suoi dipinti nella tradizione olandese risultavano superati, nei primi tempi riuscì comunque a venderli. Vedeva artisti tecnicamente meno dotati di lui diventare famosi nel mondo, e in lui montava la rabbia per i critici, che considerava prezzolati e incompetenti, e per gli artisti moderni, per lui altrettanto incompetenti.
Nel 1928 fondò una rivista, “Il gallo da combattimento”, dove pubblicò articoli al vetriolo contro l’arte moderna e contro Picasso, Matisse, Mondrian, Cézanne, Utrillo, Van Gogh e altri. Nel frattempo le vendite erano calate, e la vita mondana, a base di alcol, stupefacenti ed eccentricità condite da un carattere urticante, gli aveva consumato i risparmi e anche la forma fisica. Decise allora di fare un colpo di testa, dipingere un quadro nello stile di un famoso artista antico, venderlo, e poi svelare l’inganno, dimostrando al mondo intero le proprie qualità e vendicandosi di chi lo aveva sottovalutato. Almeno, pare che in principio il piano fosse questo. Fu così che nacque il falso Vermeer “Cena in Emmaus,” uno dei dipinti più famosi nella storia dei falsi. Non si trattava della copia di un quadro esistente, ma di un dipinto originale realizzato nello stile di Vermeer, che è il tipo di falso più insidioso e più temuto nel mondo dell’arte, perché non rifacendosi a qualcosa di già esistente ricalca l’originalità dell’arte stessa e rende più difficile il confronto.
Il più famoso critico ed esperto d’arte olandese, Abraham Bredius, acclamò il dipinto: «Quest’opera giovanile di Vermeer è un capolavoro.» Dalle analisi non emerse nulla che facesse pensare a un falso, i più importanti esperti e storici confermarono il giudizio di Bredius, come R. Schneider, L. Roell, H. Martin e T. Hannema, che si dilungarono in critiche zuccherose e osannanti. L’unico giudizio negativo fu di Johan Huizinga, il quale però mise in discussione solo la riuscita dell’opera nel narrare un episodio del Vangelo, non la qualità e men che meno l’autenticità.
La notizia del ritrovamento si diffuse e l’opera fu riprodotta sui giornali di tutto il mondo. Fu acquistato nel 1938 e la prima esposizione del dipinto richiamò una vasta folla, era diventato celeberrimo in tempi rapidissimi. Una recensione della mostra affermò: «Nonostante la presenza di splendide opere di Rembrandt, Hals e Gruenewald, il Vermeer di recente riscoperta costituisce il nucleo spirituale della mostra.»
Van Meegeren fu talmente soddisfatto che non ci pensò proprio ad attribuirsi il dipinto, incassò il denaro e prese a sperperarlo come suo solito, bruciandolo in poco tempo. Divenne così falsario a tempo pieno, favorito dalle incertezze che la guerra causava, e che spingeva molti a investire in opere d’arte antica. Tra i clienti da lui beffati ci fu anche il nazista Goering; il quale però, ironia della sorte, almeno in un’occasione pagò con soldi falsi.
Nonostante i lauti guadagni, la vita di eccessi gli stava minando sempre più la salute, anche quella mentale, e dopo la fine della guerra, la polizia bussò alla sua porta perché, in quanto fornitore d’opere antiche olandesi per Goering, era accusato di collaborazionismo. In breve, confessò di aver dipinto quelle e altre opere, compresa la “Cena in Emmaus”, ma nessuno volle credergli. Per convincerli, dipinse in prigione un Vermeer che lasciò tutti attoniti; si organizzarono varie commissioni di studio e ben presto non vi furono più dubbi sull’autenticità delle sue affermazioni.
Il processo si chiuse con l’obbligo di risarcimento e con un anno di reclusione, ma la sua fama divenne mondiale, e se alcuni lo considerarono solo un truffatore altri lo dipinsero come un genio. Ci furono addirittura dei falsari che imitarono il falsario. La sua salute era ormai però del tutto compromessa, e nel 1947 un infarto lo stroncò. La “Cena in Emmaus” venne lasciata nel Bojmans Museum, ma spostata nel reparto della pittura contemporanea, proprio tra gli artisti che Van Meegeren odiava. Al suo funerale presenziò una vasta folla, per Amsterdam era diventato una sorta di eroe nazionale: l’artista che aveva truffato i nazisti. Le polemiche sul suo operato però non si conclusero con la morte, si spinsero fino agli anni Settanta, ci furono perizie e controperizie, e tanti non si arresero mai all’idea che quei dipinti fossero falsi.
Alceo Dossena, giovane scalpellino quasi senza istruzione, costruì in breve tempo una solida reputazione per la sua abilità nel copiare non tanto le opere quanto lo stile di qualsiasi maestro del passato. Fin quando, nel 1916, incontrò Alfredo Fasoli e Alfredo Pallesi, due mercanti d’arte dalla morale ballerina che gli commissionarono – per pochi soldi – delle imitazioni di famosi scultori dicendo di volerle vendere come copie. Dossena ne fu ben contento, e si impegnò trovando anche nuove tecniche per dare alle opere un aspetto antico e renderle simili agli originali. Fasoli e Pallesi avevano però in mente tutt’altro: iniziarono a vendere le sculture di Dossena come originali, e in pochi anni le piazzarono in giro per il mondo.
Riuscirono a ingannare i musei di Berlino, Monaco e Roma, ma soprattutto in America trovarono una vena d’oro. L’institute of Arts di Detroit cadde per due volte nell’inganno, e il Met, Metropolitan Museum of Art di New York, comprò una statua greca del V secolo a.C. prodotta da Dossena. Il quale dal canto suo se la cavava a stento con lo scarno guadagno, angosciato da una brutta malattia che aveva colpito la moglie. Finché un suo amico, di ritorno dagli Stati Uniti, lo avvertì che le sue opere erano state vendute come originali, mostrandogli anche i cataloghi. Solo allora Dossena si rese conto di essere stato ingannato, e nel 1929 portò i due truffatori in tribunale.
Le prove che Dossena fu in grado di esibire furono schiaccianti, non ultime i pagamenti ricevuti per ogni singola opera, circa l’equivalente di 150 euro di oggi, una somma risibile. Il totale dei soldi ricevuti per le decine di sculture realizzate per Fasoli e Pallesi era molto inferiore alla somma incassata da questi per una sola di quelle opere. I due furono costretti a pagargli l’equivalente di cinquantamila euro di risarcimento. Il processo ebbe una forte eco nel mondo, spaventando musei e collezionisti, con successive richieste di indennizzi. Il governo finì col requisire tutte le opere presenti nella bottega di Dossena.
Alcuni musei non chiesero alcun risarcimento, seguendo l’esempio del Museum of Fine Arts di Boston, che aveva acquistato la copia di un’opera di Mino da Fiesole; uno dei suoi direttori dichiarò: «Continueremo a esporla. È un’opera splendida, chiunque ne sia l’autore.» Mossa molto intelligente, non solo per l’understatement che esibisce, ma anche perché conferma che la scelta fatta dal museo era stata prima di tutto una scelta di qualità, e non solo dettata da un nome e da una data.
Il Met di New York invece nel 1933 visse un altro brutto episodio con dei falsari: tre guerrieri etruschi di terracotta, due dei quali alti più di due metri, pagati a peso d’oro. In seguito si scoprì che erano stati realizzati dallo scultore Alfredo Fioravanti, per il laboratorio artigianale della famiglia Riccardi.
Fu un brutto colpo per Gisela Richter, specialista di antichità greche e romane, archeologa e curatrice del Met, che era stata ingannata da questi falsi; rifiutò di ammettere il proprio errore a lungo, prima di arrendersi all’evidenza, quando Fioravanti firmò una confessione e mostrò il pollice mancante di uno dei guerrieri. Le sculture sono ancora in possesso del Met, stipate nei magazzini.
Intanto Dossena non se la passava bene, l’indennizzo gli era bastato appena a coprire i debiti e il funerale della moglie, era inoltre avvilito dal pensiero che gli altri potessero considerarlo un criminale, infine si ammalò. Pare che in quegli anni il dittatore venezuelano Juan Vincente Gómez gli avesse chiesto di produrre grandi quantità di denaro falso, e che lui avesse rifiutato sdegnato, dicendo di essere un artista, non un ladro. Vennero messe all’asta tutte le sculture da lui realizzate dopo il processo, ottenendo l’equivalente di 6.500 euro, più o meno la somma che Dossena aveva speso per le attrezzature e i materiali. Con questi pochi soldi, riuscì a tirare avanti per gli ultimi anni che gli restarono da vivere. Non fu mai possibile stabilire con esattezza quante copie furono acquisite in giro per il mondo, ma alcuni stimano che almeno la metà delle opere realizzate da Dossena siano ancora oggi considerate originali. Chissà come sarebbero andate le cose se Dossena fosse nato quattro secoli prima, forse oggi lo ricorderemmo come un grande del Rinascimento.
Elmyr de Hory è considerato uno dei falsari più dotati del ventesimo secolo. Di ottima famiglia, fu apprendista di Fernand Léger. Finì in un campo di concentramento perché ebreo e omosessuale, e lì subì delle torture; portato in un ospedale a Berlino, riuscì a scappare, per scoprire che i genitori erano stati uccisi e i loro beni confiscati dai nazisti. Si trovò alla fine della guerra solo e in miseria, cercando di sopravvivere a Parigi come pittore, ma senza successo, decise quindi di darsi alla falsificazione di artisti come Picasso, Matisse e Degas. Grazie anche all’accento esotico e ai modi raffinati, riuscì a introdursi nell’ambiente hollywoodiano, riuscendo a piazzare molti dei suoi falsi, finché dei suoi Modigliani vennero scoperti, allora riparò a New York.
Tentò ancora di vivere della propria arte originale, ma con scarsi risultati, cosa che lo portò a un tentativo di suicidio.
Si associò con due loschi personaggi, Fernand Legros e Réal Lessard, che ben presto iniziarono a tiranneggiarlo e a sfruttarlo. In seguito si spostò a Roma, dove tentò ancora di proporre la propria arte, stavolta con risultati migliori. Infine si stabilì a Ibiza, dove era stato anche in prigione; gli isolani sembravano averlo adottato anche per la fama di falsario che lo ammantava, e persino in prigione aveva ricevuto un trattamento di lusso. Rilasciava spesso interviste e Clifford Irwing scrisse una sua biografia, Elmyr prese anche parte a un singolare film di Orson Welles, “F come falso”, dove interpretava se stesso. Negli ultimi anni riuscì a ottenere finalmente il successo che aveva sempre sperato per la propria arte, ciononostante, si uccise con i sonniferi nel 1976. Alcune sue copie raggiunsero le quotazioni degli originali, e sul mercato comparvero delle copie delle copie.
Eric Hebborn veniva invece da una famiglia di modeste condizioni, il suo motto era: «Non esiste quella che viene chiamata falsificazione; esistono solo i falsi esperti e le loro false etichette.» Imparò molto sui trucchi del mercato da Sir Antony Blunt, suo amico e amante. Blunt era un esperto, e supervisionava le collezioni d’arte della casa reale inglese; in seguito si scoprì che faceva spionaggio, ed era a Roma in qualità di contatto per un agente del KGB.
Hebborn Produsse circa un migliaio di falsi, e nel 1984, stufo dell’anonimato, indisse una conferenza stampa per confessare la propria attività di falsario. Affermò di non aver mai presentato come originali le proprie opere, erano stati gli esperti e i mercanti a farlo. Colse l’occasione per togliersi tutti i sassolini dalla scarpa, e sputò veleno sul mondo dell’arte e il suo mercato, in particolare sull’ignoranza e l’avidità degli intermediari, tutti facilmente ingannati dai suoi falsi. Scrisse anche un libro autobiografico, “Troppo bello per essere vero”, nel quale continuò a sparare a zero, sul mercato, sugli esperti e anche sull’arte contemporanea.
Secondo Hebborn: «Non è un crimine disegnare in qualsiasi stile si desideri, né chiedere a un esperto la sua opinione. “Però”, direte voi, “c’è il fatto di avere lucrato da quelle frodi.” La mia risposta è che non vedo perché avrei dovuto regalare i miei disegni; inoltre posso dire onestamente di non aver mai chiesto né ricevuto somme superiori a quelle che un artista della mia reputazione poteva pretendere per le sue opere. Chi ha veramente lucrato sono stati i mercanti d’arte e per questo non accetto di essere considerato un criminale.
Partiamo dunque da qui: può un disegno o un dipinto essere falso? Potrà sembrare strano, ma la risposta è no. Un disegno è certamente un disegno, come una rosa è una rosa, e l’unica cosa che può avere di falso è l’etichetta, l’attribuzione. Quale sollievo questa verità dovrebbe portare al mondo dell’arte!»
Tutto questo fu una bufera per musei, collezionisti e mercanti, che sudarono freddo. Un’indagine successiva concluse che in giro per il mondo c’erano circa 500 falsi di Hebborn considerati originali; in seguito alcuni di questi sono stati identificati, ma molti altri non lo sono ancora oggi. Nessuno può avere la certezza che il disegno che sta osservano in un museo sia originale e non una copia di Hebborn, e lui stesso ha più volte affermato che i musei sono pieni di falsi, suoi e di altri falsari.
Scrisse anche un manuale del falsario, e pochi giorni dopo la sua pubblicazione, nel 1996, fu trovato con il cranio spaccato, agonizzante, in una strada di Roma.
Quella notte pioveva, e Hebborn fu preso per un barbone ubriaco, e trattato di conseguenza, solo molte ore dopo si accorsero della ferita alla testa, che infine lo condusse alla morte. L’episodio fu liquidato come un incidente, ma il dubbio che si sia trattato di omicidio non si è mai spento.
Jupp Jenniches, falsario improvvisato senza alcun talento, lavorava come guardiano per il museo di Colonia. Nel 1947 il museo ospitò una mostra intitolata “Da Nolde a Klee”, e Jenniches rimase colpito dai commenti dei visitatori, alcuni ammirati e altri convinti che anche un bambino avrebbe fatto meglio. A Jenniches venne un’idea: ricalcò su carta i contorni di alcune delle opere esposte, le trasferì poi su carta da disegno, le colorò e aggiunse le firme di Klee, Nolde e altri artisti. Fece dei falsi certificati di garanzia e offrì il tutto a un mercante dalla morale elastica che già aveva subito una condanna per ricettazione, dando il via a un fiorente commercio che gli permise di comprar casa. Quando Nolde stesso sbugiardò uno di questi falsi, la cosa finì in tribunale, ma benché riconosciuti colpevoli, nessuno dei due finì in galera. Pubblico e corte furono piuttosto divertiti dall’idea che una persona del tutto negata per il disegno e la pittura fosse riuscita a beffare il mondo dell’arte.
Nel 1976 il falsario Tom Keating rivelò di aver invaso il mercato con migliaia di imitazioni di opere del Seicento olandese, degli espressionisti tedeschi e di Constable, rincarando la dose asserendo di essere un pessimo falsario, e che solo un pazzo avrebbe potuto prendere per originali le sue imitazioni. Affermò anche di aver scritto sulle tele, prima di iniziare a dipingere: usando un pigmento al piombo rilevabile ai raggi X, aveva scritto il proprio nome, o la parola “falso” oppure delle parolacce. In effetti, Keating era un dilettante e le sue erano falsificazioni scadenti, eppure mercanti esperti, come quelli della Leger Gallery di Bond Street, avevano valutato i suoi dipinti come originali, vendendoli a prezzi elevati.
Chang Dai-chien è una figura singolare, considerato al tempo stesso uno dei più grandi artisti orientali e uno dei più grandi falsari del ventesimo secolo. A suo dire, i suoi erano falsi realizzati non per lucro né per ripicca, ma solo per divertimento. Fu definito il “Picasso d’Oriente”, e persino Picasso era d’accordo. Divenne ricchissimo, al punto che nessuno ha mai saputo con esattezza a quanto ammontasse il suo patrimonio, e visse nel lusso e negli sprechi, attorniato da una corte di servitori e numerose mogli. Morì nel 1983, a ottantaquattro anni, dopo aver realizzato più di trentamila opere, tra originali e falsi, che ancora oggi non sono stati tutti scoperti. È stato il primo artista cinese famoso anche in Europa e in America.
Chiudo questa breve carrellata con la famosa burla delle teste di Modì. 1984, centenario della nascita di Modigliani, il Comune di Livorno inizia a cercare nel Fosso Reale alcune sculture che l’artista avrebbe buttato perché deriso dagli amici del Caffè Bardi. Il 24 Luglio vengono ritrovate due teste, sotto l’occhio catodico delle televisioni. La notizia è esplosiva, e molti esperti si affrettano ad attribuirle a Modigliani, tra questi Vera Durbè, del museo Progressivo di arte moderna di Livorno, gli storici Enzo Carli, Carlo L. Ragghianti, Cesare Brandi e il celeberrimo Giulio C. Argan; anche lo scultore Pietro Cascella è convinto dell’autenticità. Il 10 agosto una terza testa emerge dal fosso. Il 4 settembre però, tre ragazzi livornesi, Pierfrancesco Ferrucci, Pietro Luridiana e Michele Ghelarducci rivelano di aver scolpito per scherzo una delle tre teste, con l’ausilio di un trapano.
Alcune fotografie li mostrano durante la realizzazione dell’opera. Non sono presi sul serio, ma il 10 settembre, in una diretta televisiva su Rai1, dimostrano di essere in grado di rifare la testa. Alcuni giorni dopo, si palesa anche l’autore delle altre due teste, è Angelo Froglia, un ragazzo che era stato studente all’Accademia di Belle Arti. Il suo intento era di mettere alla prova i critici e i media, e le loro possibilità di creare miti dal nulla. Sulle teste produsse anche un video presentato al Torino Film Festival del 1984. Vera Durbè non accettò mai queste rivelazioni, e continuò a sostenere l’autenticità delle teste.
Andros (Dal blog dell’artista Androsophy, Internet archive)
Per scoprire meglio Andros potete leggere i seguenti posts:
Last but not least, se volete scoprire di più sulla sua arte, le sue avventure ed i suoi scritti, seguite questi links:
www.pinterest.it/androsophy/sculptures/
www.instagram.com/andros.art/?hl=it
www.facebook.com/andros.deadart/