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Amori, lettura e scrittura in estate al lago

Amori, lettura e scrittura in estate al lago

Estate al lago
Estate al lago

Amori, lettura e scrittura in estate al lago, un articolo che analizza il romanzo Estate al lago di Alberto Vigevani, con un estratto di alcune pagine del testo.

Attorno agli anni ’90 avevo trovato allegato ad una rivista, in omaggio, il libro Estate al lago di Alberto Vigevani e benché non fossi un grande amante dei romanzi, visto che non potevo andare in vacanza e poiché in gioventù avevo trascorso spesso delle giornate estive sul lago di Garda, benché in questo caso si trattasse del lago di Como, memore di qualche rifermento ai Promessi Sposi del Manzoni, decisi di leggerlo. 

Il lago in ogni caso ha comunque un fascino particolare, e come dicevo anch’io ho trascorso in questi ambienti un bel po’ di giornate, prima con mia mamma che mi accompagnava per andare a pescare attorno ai 12-13 anni, nelle acque di Salò, Maderno, Desenzano, poi con i miei amici negli anni turbolenti della mia adolescenza, principalmente a Toscolano Maderno, Manerba, Padenghe, e poi ancora sul Lago d’Idro, e infine ancora con mia mamma alle terme di Sirmione.

Ora a distanza di più di trent’anni da quel periodo e a ben 66 anni dalla pubblicazione del libro avvenuta nel 1958, ho deciso di dedicargli questo articolo, anche perché, visto che siamo in estate e la gente in genere legge sempre meno, mi sento di affermare che leggere “Un’estate al lago” di Alberto Vigevani è come concedersi una vacanza letteraria, ricca di emozioni, riflessioni e bellezza.

Direi per prima cosa che consigliare questo romanzo, snello ma succulento, significa suggerire un viaggio emozionante nella nostalgia e nella bellezza del passato. Ed ora vi elencherò diversi punti per cercare di convincere qualcuno a non perdere questa occasione letteraria.

1) Vigevani è un maestro nel creare atmosfere che trasportano il lettore direttamente nelle calde estati italiane, tra paesaggi lacustri incantevoli e la quiete della natura.
2) I protagonisti del romanzo sono descritti con una profondità psicologica che permette al lettore di immedesimarsi nelle loro vite e nei loro sentimenti. Le loro storie e interazioni sono il cuore pulsante del libro.
3) La prosa di Vigevani è elegante e poetica, rendendo la lettura un’esperienza estetica oltre che narrativa. La sua capacità di descrivere i dettagli con delicatezza e precisione arricchisce ogni pagina.
4) Il romanzo esplora temi come l’amore, la memoria, la perdita e la ricerca di sé, offrendo spunti di riflessione che risuonano profondamente con i lettori di ogni età.
5) Ambientato negli anni ’30, “Un’estate al lago” offre un affascinante spaccato di un’epoca passata. Vigevani riesce a catturare l’essenza del tempo e del luogo, permettendo al lettore di vivere un pezzo di storia italiana attraverso gli occhi dei suoi personaggi.
6) Il libro è pervaso da una dolce nostalgia, che invita il lettore a riflettere sulla propria infanzia e sui ricordi estivi. Questa introspezione rende la lettura profondamente personale e toccante.
7) “Un’estate al lago” è stato accolto favorevolmente dalla critica, che ne ha lodato la qualità narrativa e la profondità emotiva. È un’opera apprezzata sia dai lettori che dagli esperti letterari.
8) La descrizione dei paesaggi, delle giornate estive, e delle piccole gioie quotidiane crea un’esperienza immersiva che consente al lettore di “vivere” l’estate al lago insieme ai personaggi.

Alberto Vigevani
Alberto Vigevani

Alberto Vigevani (1918-1999) è stato uno scrittore, poeta ed editore italiano. Nato a Milano, si distinse per la sua produzione letteraria caratterizzata da una prosa elegante e malinconica. Oltre a numerosi romanzi e racconti, Vigevani pubblicò poesie e si dedicò all’editoria, fondando la casa editrice Il Polifilo, specializzata in libri d’arte e di alta qualità tipografica.

Le sue opere riflettono spesso la nostalgia per un mondo perduto e la complessità delle relazioni umane. Vigevani è ricordato come una figura importante nel panorama culturale italiano del XX secolo. Oltre a Estate al lago ha pubblicato Un’educazione borghese; La casa perduta; L’abbandono; La breve passeggiata. Ha ottenuto, tra altri, il Premio Bagutta.

Estate al lago. L’estate era stata diversa da quelle passate: le ultime vacanze dell’infanzia. Era maturata per Giacomo una nuova età: dalla suggestione dei sensi alle delicate immagini del suo amore puerile. Tutto si poteva dire in silenzio e tutto si scioglieva in contemplazione.

Come ha scritto Geno Pampaloni nell’introduzione al testo, la verità del libro è in questo attimo di sospensione vitale, in questo (doloroso e insieme corroborante) diritto al segreto di fronte alla violenza della realtà. E, la sua, una sospensione magica, illusa e labile com’è proprio dell’adolescenza. Ma non è solo sua: è anche l’illusione ansiosa del silenzio e della contemplazione, quella lieve vertigine fatta di insicurezza, di angoscia e di nostalgia che caratterizzò la cultura europea tra le due guerre al cospetto delle dittature e nell’imminenza della tragedia.

Pampaloni spiega molto bene la natura del romanzo e tutti i suoi risvolti, come si evince da queste sue riflessioni. ” Intendiamoci. La qualità poetica del racconto del Vigevani attinge a una cultura riflessa. Tutto è già alle sue spalle. «Tutto è accaduto», come dice un titolo di Corrado Alvaro, che sentì come pochi altri scrittori, con intelligenza amara, la transizione esistenziale propria del nostro tempo. Non per nulla Alberto Vigevani è libraio antiquario, ed è editore di testi preziosi e dimenticati della più raffinata tradizione, quasi che la sua vocazione di uomo sia dedicata al recupero, all’assaporamento di valori non mercificabili, alla fedeltà della memoria.

Dietro di lui scrittore si staglia la grande ombra di Proust, il fascino della grande borghesia colta, intenta a cogliere l’ultima essenza di un mondo stremato dai suoi stessi valori… Perciò, contrariamente allo schema usuale, per cui l’adolescente passa dalla innocenza alla torbida scoperta del sesso, egli supera abbastanza rapidamente l’accensione sensuale, e sublima la sua ricchezza affettiva in un amore impossibile per la bionda e gentile madre del suo compagno di giuochi. Ma ecco che qui racconto d’amore e storia di un’educazione sentimentale si saldano.

Lago di Como in estate
Lago di Como in estate

Che cosa rivela a Giacomo l’incontro con la giovane donna e il suo figliolo malato e ardente? 1. La forza della passione, così profonda e coinvolgente da risultare rasserenante anche se dolorosa; 2. L’« armonia e tenerezza» che unisce madre e figlio in un legame meraviglioso, compatto, inscindibile; 3. L’ambiguità della figura materna, ove si mescolano la dolcezza sensuale e il tepore protettivo, oscuro modello e | presagio di un’ambiguità esistenziale che accompagna l’intera vita; 4. La gioia pura e malinconica della bellezza, che invita al silenzio e alla contemplazione; 5. Gli rivela infine la possibilità stessa della rivelazione dell’io profondo, vertiginosa «come se si trovasse sull’orlo della propria vita ».

Tutto questo lo prepara all’intuizione finale: «com’era complesso l’amore; non solo desiderio d’armonia, di bellezza, ma anche aspirazione a non esistere più, ad annientarsi. E ancora: vi era qualcosa di crudele, d’irrimediabile, qualcosa che non si sarebbe nemmeno potuto confessare, anche se lo avesse veramente compreso ».

Questo è, mi pare, il tratto originale del personaggio (e del libro): la perdita dell’innocenza, momento fatale di ogni adolescenza, si trasforma, come in dissolvenza, nella consapevolezza della complessità dell’amore, con tutto ciò che di ambiguo, di doloroso, ma anche di certo e, in qualche senso, di supremo, tale consapevolezza porta con sé. Mentre si chiudono, tra le prime piogge e i colori spenti dell’autunno, le «ultime vacanze dell’infanzia », l’educazione sentimentale di Giacomo può dirsi compiuta, ma nel senso che il velo d’ombra di un’incompiutezza infinita si proietta a occupare ogni possibile futuro.

Il crepuscolo di adolescenza, la lacerazione tra innocenza e maturità, che egli ha vissuto nell’estate al lago, è destinata a durare per sempre. Ma si capisce che, avviandosi ignaro verso i tempi della violenza e della devastazione che si affacceranno alla storia, egli entrerà nella vita non sotto il segno della conquista ma sotto il segno della poesia.”

Ma ora lasciamo lo spazio ad alcune pagine del libro.

I primi giorni di vacanza seguirono rapidi, come una febbre che accalori le guance e svanisca lasciando una stanchezza, un senso di sonnolenza, e ancora fame di nuova stanchezza e di sonno. I cugini erano arrivati: l’Elisa, gentile e non bella, dal corpo pesante, la fronte a bauletto sporgente sopra gli occhi; Aldo, che aveva l’età di Stefano e dipingeva all’acquarello; Mario, un ragazzo calmo, maggiore di Giacomo di due anni. Stavano sempre insieme: nuotavano, andavano in barca, a volte salivano sulla strada di Porlezza, dov’era una valle segnata da un fiumiciattolo incassato, il Senagra. Altre partivano per Cadenabbia o, dalla parte opposta, per Acquaseria e Gravedona, in bicicletta, con la merenda al sacco, e dopo aver fatto il bagno si riposavano sui prati. Formavano una compagnia allegra, con altri giovani che s’erano aggiunti: la bruna che Stefano aveva conosciuto al Lido, Elsa, figlia del padrone dell’albergo Victoria, e il fratello, un giovane basso, il tuffatore migliore della spiaggia, che anche fuori portava una calottina rossa sui capelli impomatati. Poi le due ragazze Lanfranchi, già da Milano amiche dei cugini: la maggiore slanciata, con occhi verdi luminosi; la minore, grassottella e addormentata, con gli stessi occhi, ma sbiaditi e gonfi, che le davano l’espressione attonita di un pesce…

Giacomo aveva scoperto per conto suo che l’Elsa non era tutta muscoli, ma d’una bellezza così piena e persuasiva che se ne sentiva attirato. Tuttavia la sua inclinazione non andava oltre il piacere degli occhi e quel senso di vergogna che lo istupidiva se gli capitava di rimanere solo con lei. La presenza di Clara, d’altra parte, riusciva a rendere leggera l’aria che li avvolgeva, nulla in essa s’incideva con troppa asprezza, appena vi si accennavano le amicizie ancora incerte. L’Elisa e la minore delle Lanfranchi divennero inseparabili, Mario stava insieme con Giacomo che era il più giovane ma non stonava in mezzo agli altri, in quei primi giorni in cui tutto scaturiva con spontaneità, come se per le vacanze fossero tornati ragazzi anche i grandi. Forse non badavano alla differenza di età, o lo ammettevano perché li faceva ridere con uscite in cui, incitato dal desiderio di farsi notare, caricava il suo senso dell’umorismo di una capacità d’invenzione che si smentiva di rado. Le zitelle che aveva spaventato in bicicletta erano divenute dei personaggi, così Antonio, il custode, di cui rifaceva la voce e imitava i discorsi farciti d’interiezioni, di proverbi detti a sproposito. Ma forse erano gli altri, a completare o ad accrescere il ridicolo dei suoi accostamenti, delle trovate che gli nascevano spontanee dal troppo parlare, quando si eccitava: la verità era che avevano voglia di ridere, di sentirsi disinvolti e spensierati prima d’addentrarsi nel terreno sfuggente e sconosciuto delle nuove amicizie.

Cartina del lago di Como
Cartina del lago di Como

Finirono anche quei giorni d’attesa: Stefano ora lo respingeva, se gli andava vicino mentre aveva al braccio l’Elsa; rispondeva a monosillabi. Durante le gite Giacomo e Mario restavano indietro. Prima, avevano tutti riso delle sue immagini, si era sentito ammirato dalle ragazze, invidiato da Mario, in brevi momenti di esaltazione che lasciavano adesso il posto a un risentimento. Supponeva d’essere condannato a portare i calzoni corti in eterno, come un segno d’’inferiorità. Tra loro due e i grandi duravano lunghi silenzi, le parole di Giacomo cadevano senza che nessuno le raccogliesse, e a un tratto s’’accorgevano che i giovani camminavano avanti, sulla mulattiera lungo il monte, o rimanevano solo loro sulla spiaggia, mentre gli altri se n’erano andati in barca senza chiamarli. Li ritrovavano poi che ballavano nella sala a pianterreno della villa o all’albergo Victoria…

Presto arrivò luglio. Negli alberghi si davano i primi balli: la stagione vera sarebbe venuta a settembre. Clara si metteva in abito lungo e veniva a farsi ammirare prima di uscire. Stefano vestiva lo smoking e Giacomo gli faceva compagnia mentre si preparava in bagno e annodava la cravatta davanti allo specchio. Forte e giovane, le sopracciglia folte, gli occhi vellutati e scuri uguali a quelli del padre, pareva lontano come mai, e proprio nel momento in cui gli offriva maggiore confidenza.

Delle feste parlavano a tavola, il giorno dopo. Gli rimanevano nella mente episodi e nomi di persone, uditi nei discorsi dei fratelli, con il prestigio delle cose inaccessibili. Se la festa era a Menaggio, andava con le domestiche a vedere l’entrata dai cancelli.

L’Emilia gli metteva una mano sulla spalla; diceva: «Ti piacerebbe vestirti da sera, ballare anche tu? »…

A metà d’agosto il padre tornò per fermarsi una settimana. Giacomo quasi non s’accorgeva di lui. Gli era toccato ancora deluderlo: non aveva mai adoperato gli attrezzi e aveva fatto pochi progressi nello studio. Si sentiva in colpa, guardandolo: come provasse il sentimento che il padre fosse, senza sospettarlo, esposto a subire le conseguenze di ciò che a un tratto poteva insorgere nel suo animo. Gli appariva incapace di difendersi, nell’abito di tela un po’ ottocentesco, con la camicia di seta cruda aperta sul collo e il leggero copricapo di panama che sbiancavano ancor più la sua carnagione cittadina. Del resto non stavano mai insieme: usciva con la madre a visitare parenti o conoscenti che poi venivano a prendere il tè in giardino. A Giacomo sembrava che tra loro due qualcosa fosse già cambiato. Forse temeva per il suo segreto, quando gli occhi del padre si posavano sopra di lui, schiariti da un’ironia dolce e penetrante che avrebbe voluto sfuggire.

Eppure, durante il giorno, tra Giacomo e l’Emilia tutto si svolgeva come prima, di nuovo non c’era che la carezza più ardita, le poche sere, ormai, che andavano a passeggio insieme. Spesso lei voleva uscire con l’Elvira, dicendo che si recavano al cinema, dove lui non poteva seguirla. Incontrandolo, sorrideva sempre, lo sfiorava col fianco come per scherzo, forse per vedergli in faccia il turbamento che non riusciva a nascondere. Era come fosse per abbandonarsi a piangere, e non potesse trovare comprensione se non in lei che già mostrava di evitarlo.

Ma la notte, prima di addormentarsi, era diverso: come un appuntamento, ogni volta si ripeteva il lungo istante in cui, col respiro disordinato, il capo fitto nel guanciale, brancolava sopra un’immagine di lei oscura e avvincente. Se la raffigurava nuda, nella sua ricchezza segreta, lambita dal buio, le spalle e il petto candidi in luce, il ventre affondato in una macchia. Confusa e incerta ossessione, come confuse e incerte le reminiscenze, il negativo del nudo tra le rocce finte, i corpi femminili alla spiaggia, ogni nutrimento anonimo e frammentario della sua fantasia. A sfiorare quella immagine con una carezza, qualcosa entro di lui si rompeva in una breve liberazione che lo lasciava intontito e vergognoso.

Infine una sera, appena partito il padre, che tutti erano usciti – l’Elvira aveva voluto andare al cinema da sola -, udì il passo dell’Emilia nella stanza che occupava all’ultimo piano, sopra la sua. Giacomo aveva già un poco dormito e quei passi gl’illuminarono d’improvviso la figura di lei, i suoi gesti mentre andava spogliandosi. Gli pulsavano le tempie; senz’accorgersene si trovò fuori della porta. Salì le scale nell’oscurità, cercando di non far rumore. Si sentiva un ladro, temeva che qualcuno potesse sorprenderlo. Una striscia di luce bagnava il pianerottolo, da sotto la porta. Non udiva nemmeno più il passo della donna.

S’appoggiò alla maniglia, la porta cedette. Dalla finestra ovale entrava la luna e illuminava il letto. Il suo volto era quasi al buio: pareva ancora più pallido. Vide che i suoi occhi lo fissavano.

« Giacomo », disse a bassa voce, « sei tu? ». Siccome non si muoveva, rigido contro la porta, il cuore che gli batteva di furia, lei riprese, con una voce alterata che sembrò una carezza:

«Vieni qua».

Andò verso il letto in punta di piedi. Si muoveva in quella luce quasi irreale come in una delle apparizioni che venivano a sorprenderlo la notte, quando non riusciva a dormire. Lei gli prese i polsi, l’attirò a sé. Piegando le ginocchia contro la sponda del letto, premette la guancia sulla spalla nuda. Il suo profumo lo confondeva. Dietro la testa di lei, sopra il candore del guanciale colpito dalla luce, i capelli sciolti addensavano un bosco oscuro e segreto da cui si staccava il suo volto smorto, senza più quel sorriso che sempre lo pungeva, sulle labbra adesso aride e schiuse. Gli occhi, scintillanti, sembravano vetri in cui la luce acquistasse profondità.

Grand Hotel Victoria
Grand Hotel Victoria

Liberò le mani per cercarle il seno: annaspavano contro la tela un po’ ruvida della camicia. Fu lei a offrirglielo, scostando la spalla, e gli sembrò che bruciasse; poi quel fuoco gli entrò nella pelle. Lo palpava intero senza sapere dove indugiare. Si riempiva le mani della ricchezza che lei gli aveva ‘nascosto, e non cedeva alla carezza ripetuta ma la chiamava ancora, rinnovandogli come uno spasimo. Era entro un sentiero buio che lo faceva trasalire, e morbido, in cui ritrovava pungente l’odore dei capelli che gli coprivano le guance, la fronte. Un alito resinoso di terra e di donna che pareva quello del suo sangue.

«Giacomo », aveva detto, due, tre volte, irosamente, gli era sembrato, muovendo il petto per svincolarsi. Ma s’avvinghiava a lei come se dovesse spremere, succhiare tutto il profumo e il calore che emanava. Poi gli si abbandonò, ansimante. Gli aveva cercato la bocca, la mano, ma appena raggiunte si era scossa, l’aveva allontanato con violenza, accendendo la piccola lampada sul tavolino.

Era rimasto in fondo al letto. La fissava, nella debole luce elettrica, i capelli e la camicia in disordine, il volto quasi cattivo, mutato, con le labbra tremanti e tumide. La sua bellezza pareva a un tratto non più lontana, ossessiva, ma come rozza e affranta.

Il torpore lo avvolgeva, allontanando ogni cosa nel tempo: si sentiva quasi spettatore di quel suo risveglio. Vide il seno scomparire nello scollo e gli parve una macchia, un fiore raggrinzito, la punta violacea che esitò un istante sull’orlo della camicia. Contrastando con la pelle chiara del petto somigliava a un oggetto immaginato nel sogno, che alla luce reale stupisca. Anche i suoi occhi erano diversi: lo sfuggivano come fosse lei, ora, a provare vergogna e a temere il suo riso. Gli pareva anche un’illusione il sussurro, quasi un gemito, che aveva colto sulle sue labbra.

Si era seduta e aveva preso il pettine. Mentre ravviava i capelli si tolse la forcina dalle labbra e disse, a bassa voce: «Ti voglio bene, però sei un bambino ».

Parole così fragili gli avevano fatto l’effetto che le avesse pensate, più che dette. Non capiva perché tornava ora un bambino, quando per un lungo momento era stata lei a soffrire sotto il suo abbraccio, e le sue labbra avevano perduto ogni voglia di sorriso. Eppure provava anche piacere che gli avesse dato del bambino, togliendo a lui la responsabilità di quanto accaduto, che lo impauriva. Come se avesse svegliato in lei qualcosa di selvaggio e di crudo che non si sentiva di affrontare.

S’alzò dal letto e si coprì le spalle con un golf. «Ti voglio dire una cosa: sono fidanzata ».

Gli sembrò che si stringesse nella lana leggera, a quel pensiero, come rabbrividendo. Fuori si era levato un vento che scrollava le cime degli alberi.

Seduto ancora sulla sponda del letto, la fissava.

Aveva detto ch’era un bambino, eppure si sentiva maturo, aveva compiuto all’improvviso un salto avanti: così da giudicare, senza rendersi conto del perché, lei e la sua storia banali, appartenenti a un ordine diverso da quello in cui posava la ricchezza del suo corpo che lo aveva attirato con tanta forza, ma come qualcosa di misterioso. Ora le sue parole parevano sbiadire la sua avvenenza, rendere meschino il mistero.

«Con chi? » chiese: gli pareva saperlo e che non importasse.

« Con il mio compaesano, Bruno ».

Aveva fatto un passo, verso la finestra; si era ‘appoggiata al davanzale, voltandogli la schiena. «Non posso dargli un dispiacere. Anche se ti voglio bene, capisci? ».

Sembrava più alta, alla finestra, in quella zona di buio e di luce non artificiale: e distante. Come se lui non c’entrasse e stesse a guardarla con una coscienza troppo chiara, che sapeva di viltà. Del resto era bello restare al buio e cercar di comprendere mentre il fresco della notte, dai giardini umidi, gli soffiava in fronte. Pensare a lei, a se stesso, a come gli aveva detto puerilmente: « Ti voglio bene». Per lei significava qualcosa, per lui nulla; non le voleva bene, l’aveva cercata per conoscere il suo corpo e vincerne l’ossessione, per levarle il sorriso che gli aveva fatto male finché non l’aveva veduta quasi chiedergli aiuto, sconvolta sotto il suo peso, come accadeva a lui quando la sua immagine gli appariva di notte.

Entrava dalla finestra spalancata l’eco di un ballabile. Contro la luna la figura dell’Emilia si staccava scura, in un’immobilità tanto più grave delle sue parole, che gli parevano adesso somigliare a quelle d’una sciocca canzone. Si sentì prendere dall’imbarazzo, e restio: forse doveva andarle vicino, dirle qualcosa. Ma tutto era passato, bruscamente. Provava solo freddo e una leggera nausea.

Si era voltata: per un attimo la figura di lei, alta e morbida controluce, gli parve ancora desiderabile, nel ricordo del suo seno, dell’abbraccio in cui l’aveva stretta. Ma poi non era stato capace di rispondere al bacio che gli aveva dato, un bacio che rimaneva umido sulla sua fronte. Si levò dal letto, ad un tratto sorpreso, stranamente, da quella intimità. Aveva detto qualcosa, per salutarla, avvicinandosi alla porta. Lei si era riaccostata alla finestra.


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Mentre scendeva le scale, pensò di aver udito che si metteva a cantare, ma così piano che non ne era sicuro…

Rientrò in casa dalla parte del paese. Si era allontanato da tutti, e sentiva voglia di piangere, ora che la sua vicenda bruscamente si chiudeva. Accese la luce in sala. C’era un odore sottile di muffa, di vecchie cose relegate. Tappeti e mobili respiravano
la loro storia meschina, dopo la stagione luminosa che li aveva fatti brillare. Tornava tutto spento in una stanchezza uguale. A Giacomo sembrò di rabbrividire, ma era un senso di nausea. Udì sbattere le imposte, sopra. S’alzava il vento.

Clara discese le scale.

« Pioverà ancora », disse piano, e andò alla porta. Giacomo la seguì. Cadeva qualche gocciolone, nel buio. Se ne udiva lo schiocco sulle foglie delle palme e la lista di cemento che circondava la casa. Poi il vento riprese, tra i rami dei pini, finché fu un lungo silenzio, teso giù dai gradini: una lastra di vetro che attirasse come una vertigine.

Clara scoppiò a piangere. Sentì le sue dita fredde che gli passavano sul collo, e si fermavano sopra la spalla. Provò un tremito e si voltò ad abbracciarla.

Le guance le bruciavano.

Lentamente, cominciò a piovere con un brusio staccato che sembrava assopire il tempo, separarli dal mondo, mentre piangevano. Anche Clara era cambiata: erano bastate due, tre settimane, quanto era durata la sua amicizia con Andrew. Ritrovava il fresco riso di lei) che incantava tutti, trasformato all’improvviso in pianto, e gli pareva che quelle lacrime avessero il potere di asciugare le sue. Stavano in silenzio, senza dirsi nulla, eppure era come si fossero detti ogni cosa: aveva amato per la prima volta in quei brevi, veloci giorni di settembre che tramontavano, e lui non se n’era accorto. Senza volersi staccare, assaporavano il calore della solidarietà che li univa. A entrambi era mancata forse la madre, che pure rammentavano tenera, giovane, quand’erano bambini. Così appartata, ora, e stanca, innamorata del padre, gelosa della sua lontananza.

Fecero un giro intorno alla casa tenendosi abbracciati. Poi udirono la voce di Stefano che rientrava. Clara si passò il fazzoletto sugli occhi. Giacomo mormorò:

« Diremo che abbiamo preso la pioggia in faccia».

Ma Clara scoppiò ancora a piangere e lui non disse più nulla. Rimasero in giardino, al buio, mentre l’acqua gocciolava dalle foglie.

La pioggia continuò l’indomani, che sarebbe arrivato il padre. S’interrompeva, per riprendere subito: il lago era una grande pozzanghera grigia.

Andarono insieme a prenderlo all’imbarcadero di fronte alla stazione. La luce si ritirava, lasciando impallidire i petali che sfiorivano sopra gli oleandri. Nella vecchia darsena galleggiavano bucce di cocomero, sugheri, mentre cadevano malinconiche gocce sull’acqua. Ne usciva un odore forte, di cose marcite. Cominciava l’autunno.

L’estate era stata diversa da quelle passate: le ultime vacanze dell’infanzia. Era maturata per Giacomo una nuova età: dalla suggestione dei sensi alle delicate immagini del suo amore puerile. Perché era stato puerile; gli sembrava già di scordarne la forza, il tremito che l’istupidiva, di fronte alle lacrime di Clara ch’era entrata per davvero nella sua vita di donna. La fissò un istante, con tenerezza. La pioggia, rada, le batteva sulla fronte scoperta che pareva sbiancata, e nei suoi occhi tremava una fiammella leggera. Passarono accanto alla ferrovia. Qualche lume vacillava sulle macchie informi dei vagoni. Anche sopra Andrew si stendeva un velo d’oscurità. Restava entro di lui qualcosa che non avrebbe tuttavia dimenticato: una trasparenza d’immagini, una vibrazione da cui nasceva, già mite, la sofferenza che lo portava a comprendere quella di Clara.

Arrivati al lago, appoggiarono i gomiti alla balaustra. Il buio era caduto del tutto. Fissavano l’acqua, nera, e si sentivano uniti come mai erano stati, anche se i loro occhi non s’incontravano che in un punto indefinito dell’oscurità palpitante, anche se non potevano più parlare perché provavano già un senso di vertigine ad essersi tanto avvicinati. Ed era giusto che fosse così; a toccarsi l’animo a una maggiore profondità, ognuno si sarebbe ritirato nel proprio segreto. Capiva che Clara doveva sapere vagamente di lui, e soffriva perché sapeva di non potere far nulla per lei. Era il medesimo sentimento d’impotenza sperimentato ogni volta che il mondo d’armonia, che gli si era promesso, si mostrava di colpo irraggiungibile. Rimaneva vuoto, letteralmente: così accadeva al mare, quando una vela esitava a lungo all’orizzonte e poi spariva senza che ritrovasse più in sé quello che aveva provato finché era stato a seguirla con lo sguardo, immemore di ogni altra cosa. Ora la notte copriva i discorsi della gente, il rumore delle onde, i singhiozzi soffocati di Clara, che aveva indovinato più che udito. Doveva avere ancora pianto, mentre lui dimenticava quanto era stato per quel momento di bellezza struggente, malinconica, in cui aveva visto sorgere lentamente, dal buio pesto, i fanali tremolanti del battello. Mise una mano sulla spalla della sorella e stettero un poco così, fermi e uniti, finché il fragore delle pale non venne a scuoterli.

Sulla passerella, tra la piccola folla, si fece strada il padre. Non li aveva veduti, e mentre li cercava con lo sguardo nella luce dei lampioni, apparve stanco, la pelle ormai schiarita dal sole dell’unica settimana che aveva trascorso con loro. Poi li ravvisò con un sorriso e appoggiò il mento ispido sulla fronte di Giacomo, che a quel contatto risentì una pena acuta per la sua vita di lavoro che lo teneva lontano dai figli negli anni migliori; prima che lo lasciassero, com’era inevitabile: com’era, anzi, avvenuto.

Non pioveva più. Le luci alle finestre brillavano con maggiore intensità. Discesero la curva della darsena. Clara sorrideva, appesa al braccio del padre, strascinando i sandali sul marciapiede, come faceva da bimba. Sorrideva per il padre: anche quell’affetto, la tenera congiura, li univa.

Udì la propria voce rinfrancarsi, nel dire che era pronto per gli esami, che aveva studiato. E quando passarono accanto ai riverberi d’una vetrina, vide gli occhi del padre fissarlo con tenerezza, come se tutto fosse chiaro, per lui, dove loro avevano temuto l’oscurità, e gli anni li attendessero, uno dopo l’altro, come le onde che sbattevano sulla riva: con lo stesso ritmo incorreggibile.

S’animavano altre voci, dietro le loro spalle. Nel buio, il battello sfilò come una grande, fosforescente lucciola, mentre l’acqua tremava di riflessi. Poi curvò lentamente verso Varenna.

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