Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, un post letterario che riprende alcuni brani di questo testo umoristico di Giulio Cesare Croce con una piccola introduzione e una breve biografia dell’autore.
Quando frequentavo le scuole medie, nel 1973, nella nostra antologia – LA LETTURA. ANTOLOGIA CON LETTURE EPICHE di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Zanichelli Editore, un libro bello corposo per ogni annualità, oltre all’epica, alle poesie e a vari testi letterari di autori classici vi erano anche testi più umoristici, tratti da opere di scrittori di assoluta genialità.
Tra questi vi erano brani tratti dal Bertoldo di Croce che, con i testi del Don Chisciotte di Cervantes, erano tra i miei preferiti; non a caso molti anni anni dopo la mia tesi di laurea si occupò proprio del fenomeno umoristico.
A distanza di 50 anni, e dopo aver sofferto parecchio durante la mia complicata esistenza, a soli pochi mesi dalla morte di mia madre, dedico questo post a Bertoldo e al suo autore, memore dei miei anni più spensierati, quando dopo delle intese giornate scolastiche ritornavo a casa e potevo beneficiare della presenza dei miei genitori, di una realtà che non ritornerà mai più. Restano solo i ricordi, la nostalgia, la meloanconia, la sofferenza e la lieve funzione terapeutica della letteratura.
Giulio Cesare Croce è stato uno scrittore e drammaturgo italiano del XVI secolo, noto principalmente per essere l’autore della popolare opera comica “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, la cui trama ruota attorno alle avventure di due contadini, Bertoldo e Bertoldino, e del loro amico Cacasenno.
Figlio di fabbri e fabbro a sua volta, morto il padre, lo zio continuò a cercare di dargli una cultura. Non ebbe mai mecenati particolari, e lasciò gradualmente la professione di famiglia per fare il cantastorie. Acquisì fama raccontando le sue storie per corti, fiere, mercati e case patrizie. Si accompagnava con un violino. L’enorme sua produzione letteraria deriva da una autoproduzione delle stampe dei suoi spettacoli. Ebbe due mogli e 14 figli e morì in povertà.
L’opera di Croce è caratterizzata da un umorismo vivace, un linguaggio colloquiale e una satira sociale che prende di mira le convenzioni e le ipocrisie del suo tempo. “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno” è diventato un classico della letteratura comica italiana e ha avuto una grande influenza sulla tradizione del teatro popolare. Una forma scritta precedente come fonte fu il medievale Dialogus Salomonis et Marcolphi.
Oltre a “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”, e ad un romanzo successivo sempre dello stesso filone, Croce scrisse anche altre opere, tra cui commedie, numerosi libretti brevi in prosa e poesia, che abbracciano vari generi letterari della tradizione popolare e raccolte di novelle.
L’autore riprese temi popolari del passato, come la storia di Bertoldo, ambientandola alla corte di re Alboino a Verona e a Pavia. Nella sua versione più organica, rese la storia meno licenziosa e attenuò la rivalsa popolare verso i potenti. Aggiunse un seguito riguardante il figlio di Bertoldo, chiamato Bertoldino, e successivamente un altro seguito elaborato da Adriano Banchieri, chiamato Novella di Cacasenno.
Questi racconti furono poi adattati in tre film, nel 1936, nel 1954 e l’ultimo del 1984, diretto dal grande Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. In Bertoldo, l’autore confessò forse le sue aspirazioni personali, rappresentando il rozzo villano come un autodidatta desideroso di fortuna e mecenati.
La sua produzione letteraria contribuì significativamente allo sviluppo della commedia dell’arte italiana e alla diffusione della cultura popolare nel XVI secolo, diventando così uno dei precursori della commedia italiana, apprezzata ancora anche oggi. I suoi scritti inoltre contribuirono anche alla grande letteratura carnevalesca, un importante filone identificato per la prima volta da Michail Bachtin, che tra i suoi esponenti conta tra gli altri Luciano di Samosata, Rabelais, Miguel de Cervantes e Dostoevskij.
Le sottilissime astuzie di Bertoldo.
Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell’ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l’acutezza dell’ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive.
Fattezze di Bertoldo.
Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l’orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all’insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.
Audacia di Bertoldo.
Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch’erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s’immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo:
Ragionamento fra il Re e Bertoldo.
Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?
Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo.
Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi?
Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta.
Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle?
Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti.
Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti?
Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte.
Re. Qual è la più veloce cosa che sia?
Bertoldo. Il pensiero.
Re. Qual è il miglior vino che sia?
Bertoldo. Quello che si beve a casa d’altri.
Re. Qual è quel mare che non s’empie mai?
Bertoldo. L’ingordigia dell’uomo avaro.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane?
Bertoldo. La disubbidienza.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio?
Bertoldo. La lascivia.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante?
Bertoldo. La bugia.
Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa?
Bertoldo. La puttana.
Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa?
Bertoldo. La mala lingua del servitore.
Re. Qual è il più gran pazzo che sia?
Bertoldo. Colui che si tiene il più savio.
Re. Quali sono le infermità incurabili?
Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti.
Re. Qual è quel figlio ch’abbrugia la lingua a sua madre?
Bertoldo. Lo stuppino della lucerna.
Re. Come faresti a portarmi dell’acqua in un crivello e non la spandere?
Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei.
Re. Quali sono quelle cose che l’uomo le cerca e non le vorria trovare?
Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto.
Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane?
Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei.
Re. Tu hai un buon cervello, s’ei si vedesse.
Bertoldo. E tu saresti un bell’umore, se non rangiasti.
Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch’io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai.
Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri.
Re. Perché non ti poss’io dare tutto quello che tu brami?
Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l’hai; e però non puoi darla a me.
Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio?
Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi.
Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi.
Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza.
Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle.
Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall’adulazione.
Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte?
Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà.
Re. Chi t’ha mosso dunque a venir qua?
Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re.
Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t’induce a fare questi ragionamenti?
Bertoldo. L’asino del tuo fattore.
Re. Che cosa ha da fare l’asino del mio fattore con la grandezza della mia corte?
Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l’asino aveva raggiato quattro mill’anni innanzi.
Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere.
Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de’ pazzi.
Re. Tu sei un malizioso villano.
Bertoldo. La mia natura dà così.
Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna.
Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti.
Re. Or va’; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
Astuzia di Bertoldo.
Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch’egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse:
Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te.
Re. Non ti diss’io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch’io ti farei gettar via il capo dal busto?
Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne?
Re. Sì, vanno.
Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l’hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi.
Re. Tu sei un grand’uomo. Or va, ch’io ti perdono, e voi menatelo a mangiare.
Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l’opera.
Re. Perché, hai tu forse altro da dire?
Bertoldo. Io non ho ancora incominciato.
Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme.
Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta.
Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie.
Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all’usato giudicio e, volto alla Regina disse: “Poi ch’io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch’io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch’io sia bastonato, di’ a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio”.
La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s’inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l’accompagnavano viddero le guardie all’ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina.
I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo.
Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s’era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire.
Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto.
Dopo che l’infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch’ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro.
Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno.
Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d’esser mai andato in quella corte e non ardiva d’uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch’ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch’era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch’ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l’orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un’altra, quell’altra ad un’altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città.
Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto.
Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch’ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch’ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale.
Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice:
Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo.
Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v’è non si penti.
Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede.
Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto.
Re. Chi ride il venere, piange la domenica.
Bertoldo. Dispicca l’appiccato, egli appiccherà poi te.
Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia.
Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto.
Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso.
Bertoldo. La verità vuol star di sopra.
Re. Ancor del ver si tace qualche volta.
Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica.
Re. Chi si veste di quel d’altri, presto si spoglia.
Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora.
Re. Peccato vecchio, penitenza nuova.
Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico.
Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi.
Bertoldo. E il menar de’ piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche.
Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli.
Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino.
Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell’ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più.
Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona.
Re. Troppo grave è stato l’oltraggio che tu hai fatto alla Regina.
Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio.
Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien’hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va’ pur via.
Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Deh, non esser così crudele contra di me, ti prego.
Re. Tu sai bene quello che dice il proverbio: odi, vedi e tace, se vuoi vivere in pace; e, chi vuol bene a madonna, vuol bene a messere. Però non mi star più a intuonar l’orecchie, perché quanto più preghi, più gitti indarno le parole e pesti acqua in mortaio.
Esclamazione di Bertoldo per la sentenza data dal Re contra di lui.
Bertoldo. Orsù pure, il proverbio dice il vero: o servi come servo, o fuggi come cervo, perché corvi con corvi non si cavano mai gli occhi, e i parenti si vedono condurre alla forca, ma fra loro non si appiccano; però tutto quello che luce non è oro, ma chi non fa non falla; parola detta e pietra tratta non può tornar a dietro, e un torso di verze è cagione talora della morte di mille mosche; ma tal mi ride in bocca che ha il rasoio sotto, onde meglio è un’oncia di libertà, che dieci libre d’oro, perché alla fine lupo non mangia di lupo, e però per cantare il corvo perse il formaggio, come ho fatto io, che, per aver canzonato in amaro son ridotto al buco del gatto, né mi scamperiano le ali di Dedalo, ché il Re ha già dato la sentenza e la sua parola non può tornare a dietro, ancorché si dica che chi può fare può anco disfare.
Astuzia ultima di Bertoldo per campar la vita, seguitando il suo dire.
Bertoldo. Orsù pur Bertoldo, qui ti bisogna far un animo di leone e mostrar la tua generosità a questo passo, poiché tanto dura il dolore quanto tarda il morire, e quello che non si può vendere, si deve donare. Eccomi dunque pronto, o Re, a essequire quanto hai ordinato. Ma, prima ch’io muoia, io bramo una grazia da te e sarà l’ultima che mi farai più.
Re. Eccomi pronto per fare quello che domandi, ma di’ presto, ché m’hai fastidito con quel tuo longo cianciume.
Bertoldo. Comanda, ti prego, a questi tuoi ministri, che non mi appicchino sin tanto che io non trovo una pianta o arbore che mi piaccia, che poi morirò contento.
Re. Questa grazia ti sia concessa. Su, conducetelo via, né lo sospenderete se non a una pianta che gli piaccia, sotto pena della mia disgrazia. Vuoi altro da me?
Bertoldo. Altro non ti chieggio, e ti rendo grazie infinite.
Re. Orsù, a Dio Bertoldo, abbi pazienza per questa volta.
Bertoldo non trova arbore né pianta che gli piaccia, onde i ministri infastiditi lo lasciano andare.
Non comprese il Re la metafora di Bertoldo, onde costoro lo menarono in un bosco pieno di varie piante, e, quivi non ve n’essendo nissuna che gli piacesse, lo condussero per tutti i boschi d’Italia, né mai poterono trovare pianta, arbore né tronco che gli piacesse; onde, fastiditi dal lungo viaggio e ancora avendo conosciuto la sua grande astuzia, lo slegarono e lo posero in libertà, e ritornati al Re gli narrarono il tutto. Il quale, oltra modo si stupì del gran giudicio e sottile ingegno di costui, tenendolo per uno de’ più accorti cervelli che fossero al mondo.
Il Re manda di nuovo a cercar Bertoldo e trovatolo va in persona dove sta e con preghi e gran promesse lo fa tornare alla corte.
Passato lo sdegno al Re, mandò di nuovo a cercar Bertoldo e, trovatolo, lo fece pregare a tornare in corte, che il tutto gli era stato perdonato; ed esso gli mandò a dire che cavoli riscaldati né amore ritornato non fu mai buono, e che non v’era tesoro che pagasse la libertà. Onde il Re vi andò in persona e lo pregò e supplicò tanto che alfine (benché contra sua voglia) lo condusse in corte e gli fece perdonare alla Regina, e volse ch’ei stesse sempre appresso della sua corona, né faceva cosa alcuna senza il consiglio di lui. E mentre ch’ei stette in quella corte, ogni cosa andò di bene in meglio; ma essendo egli usato a mangiar cibi grossi e frutti selvatichi, tosto ch’esso incominciò a gustar di quelle vivande gentili e delicate s’infermò gravemente a morte, con grandissimo dispiacere del Re e della Regina, i quali dopo la sua morte vissero poi sempre sotto una vita trista e infelice.
Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino figliuolo del già astuto e accorto Bertoldo con le sottili e argute sentenze della Marcolfa sua madre e moglie del già Bertoldo
Proemio. Ogni pianta, ogni albero e ogni radice suole produrre il frutto suo secondo la sua specie, né mai prevaricare di quanto gli ha ordinato la gran madre natura, maestra di tutte le cose. Solo la pianta dell’uomo è quella che varia e manca, onde molte volte si vede che d’un padre di bella presenza nasce un brutto, anzi mostruoso figlio, e d’un dotto un ignorante e goffo.
La causa di ciò lascio disputare a chi sa, poiché io non son scolastico né cattedrante, ma un uomo dozzinale e che ha poca cognizione di simil cose; però non starò quivi a rendere la ragione di quanto o di tanto, né dove si derivi simil varietà, ma solo io m’accingo per spiegarvi in queste carte la vita di Bertoldino figliuolo del quondam Bertoldo, la cui natura tanto fu differente dal padre, quanto è il piombo dall’oro e il vetro dal cristallo, essendo esso Bertoldo pieno di tanta vivacità e di tanto ingegno, e la madre sua parimente di tanto alto e chiaro intelletto, ed esso (un) essere tanto semplice che mai non fu così il figliuolo di Midgone, il quale, come scrivono molti, dispensava tutto il giorno a numerare l’onde del mare, o di quell’altro che si levava di tre ore inanzi giorno per vedere crescere un fico ch’egli aveva nell’orto.
Insomma, qui udirete la vita d’un semplice, anzi d’un balordo, se non in tutto, almeno in parte, ma avventurosissimo, essendo la fortuna stata sempre fautrice di questi tali, come bene disse il gentilissimo Ariosto, quando, descrivendo le pazzie d’Orlando, disse: “Ma la Fortuna, che de’ pazzi ha cura”, e via discorrendo; e molte volte si mostra nemica agli uomini savi e sapienti, come chiaramente si vede di giorno in giorno. Or dunque, mentre io mi vado preparando per descrivere, come ho detto, le simplicità di questo galante umore, e voi intanto venite preparando l’orecchie vostre a udirle, perché ne trarrete utile e spasso a un tempo istesso. State sani, addio.
Il Re Alboino manda attorno gente per vedere se si trova alcuno della razza di Bertoldo.
Dopo la morte dell’astutissimo Bertoldo essendo restato il Re Alboino privo di così grand’uomo, dalla cui bocca scaturivano detti tanto sentenziosi e che con la prudenza sua aveva scampato molti strani pericoli nella sua corte, gli parea di non poter vivere senza qualcheduno il quale, oltre che gli desse consiglio e aviso nelle sue differenze, come facea già il detto Bertoldo, gli facesse ancora con qualche piacevolezza passare tal volta l’umore; e pur s’andava imaginando che della razza di esso Bertoldo vi fusse rimasto qualchedun altro, il qual, se bene non fusse stato così astuto e accorto come il detto, avesse almeno avuto alquanto di quel genio e di quella sembianza, per tenerlo appresso di sé, come faceva la buona memoria di esso Bertoldo.
E così stando nell’istesso pensiero si venne a ricordare come nel suo testamento Bertoldo aveaffatto menzione di sua moglie e di Bertoldino suo figliuolo, e lasciatolo erede universale di tutto il suo avere, ma però non avea specificato dove né in qual luogo essi dimorassero, per esser forse più tosto gente da boschi e da montagne che da città, essendo persone rozze e lontane da ogni civiltà; onde si pensò d’espedire gente attorno per quei monti e per quei villaggi, ch’andassero a cercare dove si trovavano costoro, se pur erano al mondo; e, fatta tal disposizione, chiamò a sé uno de’ suoi più famigliari di corte, addimandato Erminio, e gli commise che senz’altro indugio esso montasse a cavallo e si ponesse in via, con altri compagni con esso lui, e che cercassero la moglie di Bertoldo e il figliuolo, se erano vivi, e gli conducessero a lui, e di ciò gli fece grandissima instanza, per l’amor grande che esso portava al detto Bertoldo.
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