I valori della scienza. Etica, conoscenza, morale, politica ed economia. Un articolo di Jacques Monod con alcuni grandi aforismi introduttivi sull’argomento.
L’universo è riempito solo di rumori. L’uomo li sceglie e li usa per comporre a sua immagine una musica di cui si meraviglia.
McGregor
Ogni essere vivente è anche un fossile. Al suo interno, fino alla struttura microscopica delle sue proteine, porta le tracce se non le stimmate dei suoi antenati.
Jacques Monod
Tutto ciò che esiste nell’universo è figlio della necessità del caso e della stupidità.
Carl William Brown
Una delle regole fondamentali dell’universo è che niente è perfetto. La perfezione semplicemente non esiste… Senza l’imperfezione, né tu né io esisteremmo.
Stephen Hawking
La scienza oggi ha distrutto proprio questo concetto, il più essenziale in qualsiasi sistema etico, pietra angolare di qualunque struttura sociale e unico sostituto (anche se inaffidabile) del codice genetico; lo ha ridotto all’assurdo e lo ha fatto scadere allo stato di pio desiderio, privo di ogni significato.
Molti potranno non essere d’accordo con quest’affermazione piuttosto radicale. Come tutti sappiamo, sono state dette e scritte sulla scienza tantissime cose benevole e sistematicamente ottimistiche, che la presentano come un’attività esclusivamente costruttiva e creativa. Si sono invece generalmente ignorate le enormi potenzialità distruttive del metodo scientifico e, io credo, non per ignoranza ma, almeno in parte, per paura di guardarle in faccia. (Com’è ovvio, mi riferisco esclusivamente alla distruzione di idee o di concetti, non alla Bomba.)
Dire che le idee o i concetti che la scienza ha dimostrato essere indifendibili erano davvero sbagliati o privi di significato da un punto di vista oggettivo non equivale a dire che erano privi di significato soggettivamente e che non servivano a niente. È evidente che è vero il contrario. Ma vediamo brevemente in che modo e fino a che punto i concetti tradizionali che hanno dato un “significato” alla vita dell’uomo sono diventati tutti sempre piu indifendibili nel contesto della scienza moderna.
A mio parere, il nocciolo del problema può essere presentato così: praticamente in tutti i sistemi mitici, religiosi o filosofici, l’esistenza del l’uomo acquista un significato per il fatto che la si considera parte di un qualche disegno generale che spiega il complesso della natura e della creazione. Il “significato” può essere ingenuamente attribuito a un mitico eroe fondatore oppure, in modo più pomposo (ma meno poetico) a una qualche intenzione divina astratta; o si può anche pensare che le “leggi della natura” siano tali che l’universo, nella sua evoluzione, doveva necessariamente arrivare a produrre l’uomo e la sua storia, la quale alla fine porta inevitabilmente a una società senza classi. Questi sistemi, per diversi che siano, hanno tutti la stessa struttura e la stessa funzione sociale.
Tutti ipotizzano fra l’uomo e l’universo, fra la cosmologia e la storia, una continuità ininterrotta, un’alleanza immanente e profonda, in cui l’uomo e la natura servono insieme alla realizzazione del disegno universale oppure procedono insieme verso la conclusione inevitabile di tutto il creato. Idee del genere presuppongono necessariamente una certa identità di essenza fra l’uomo e la natura. Poiché l’essenza dell’uomo – ed egli non può fare a meno di sentirlo – è la sua coscienza, la sua conoscenza soggettiva di sé e del proprio processo concettuale dialettico, egli attribuisce la stessa “essenza” anche alla natura.
Queste ipotesi, naturalmente, sono espresse in modo estremamente preciso e chiaro nei miti animistici primitivi; ma la fondamentale ipotesi animistica iniziale, che porta a proiettare nella natura stessa, per interpretarla, l’essenza cosciente dell’uomo, è anche il fondamento di certe filosofie moderne. L’esempio più rivelatore è forse il materialismo dialettico che, secondo Engels, ha come pietra angolare (anche se si tratta in realtà di un’aggiunta tarda a un edificio di filosofia sociale già in fase avanzata di costruzione) la tesi che le tre “leggi dialettiche” di Hegel sono le leggi, generali della natura.
Il fatto che tanto Engels e Marx quanto uomini appartenenti alle tribù indiane abbiano dovuto introdurre nel loro sistema del mondo la stessa ipotesi di base dimostrerebbe, se fosse necessario, quanto essenziale è sempre apparso all’uomo in ogni epoca, compresa la nostra, scoprire nella natura il proprio “significato” e in se stesso il “significato” della natura. La scienza ha distrutto radicalmente proprio questa ipotesi iniziale, quest’idea vecchia forse quanto l’uomo, di un duplice rapporto fondato, su una comunanza d’intenti fra l’uomo stesso e la natura. L’ha distrutta in due modi.
In primo luogo, l’adozione del metodo scientifico, che definisce la “vera” conoscenza come qualcosa che non può avere altra fonte che il riscontro oggettivo della logica e dell’osservazione, elimina ipso facto l’ipotesi animistica dell’esistenza di un qualche tipo di soggettività nella natura. L’oggettività assoluta della natura è il postulato essenziale del metodo scientifico, a cui Galileo e Cartesio dettero per primi un fondamento nella loro formulazione del principio d’inerzia, che ha eliminato una volta per tutte la fisica e l’astronomia teleologiche di Aristotele. La Chiesa avrebbe avuto motivi più validi di condannare Galileo per questa scoperta minacciosa che non per la sua difesa del sistema copernicano.
Eppure per molto tempo si continuò ad applicare questo postulato fondamentale soprattutto nel campo delle scienze fisiche. L’enorme complessità degli esseri viventi e, più di ogni altra cosa, il fatto che nella loro struttura, nel loro sviluppo e nel loro comportamento sia possibile vedere immediatamente la loro “essenza” palesemente intenzionale sembravano separarli, insieme con l’uomo, dal mondo fisico. In che modo si poteva infatti utilizzare un postulato di oggettività per interpretare esseri così chiaramente intenzionali? A mano a mano che si arrivava a conoscere meglio la struttura e la fisiologia degli esseri viventi, questa obiezione apparentemente valida alle idee cartesiane sembrava renderle sempre meno difendibili.
L’ipotesi animistica fu in tal modo eliminata dallo studio dei fenomeni fisici, mentre in una qualche forma di vitalismo essa poteva rimanere, e di fatto rimase, in biologia. Il vitalismo in verità può assumere aspetti diversi, talora abbastanza sfumati da presentarsi come un approccio oggettivo. L’elaborazione della teoria dell’evoluzione, compiuta in un primo tempo da Buffon e da Lamarck e poi, con molta più efficacia e documentazione, da Darwin, non ha interrotto questa corrente di pensiero. Per certi versi, l’ha addirittura rafforzata: l’evoluzione nella biosfera sembrava testimoniare l’esistenza di una forza direttrice ascendente, che portava necessariamente e infallibilmente dal mondo fisico al mondo biologico e, per questo tramite, al suo coronamento: l’uomo.
Questa idea, che di fatto riprendeva in una forma apparentemente “scientifica” l’antica alleanza animistica, è chiaramente presente non solo in Engels e in Teilhard de Chardin; essa ispira anche gran parte del positivismo “progressista” dell’Ottocento. La teoria della selezione, che grazie alla genialità di Darwin era stata postulata come una delle forze direttrici dell’evoluzione, avrebbe dovuto mettere in guardia contro questo tipo d’illusione. In realtà, mentre l’evoluzione era accettata con entusiasmo da ogni sorta di progressisti e respinta con furore da tutti i reazionari, la teoria della selezione non fu né pienamente compresa né generalmente accettata.
La ragione principale di questo fatto era che il concetto di “sopravvivenza del più adatto”, benché di facile comprensione, non poteva non offendere il codice morale degli eredi della Rivoluzione francese e dell’Indipendenza americana. Inoltre Darwin non aveva formulato con precisione, né avrebbe potuto farlo, il meccanismo degli eventi iniziali che costituiscono la fonte prima dell’evoluzione, di quelle anomalie negli esseri viventi che certamente dovettero precedere la selezione. Anzi, Darwin stesso non respinse la teoria lamarckiana dell’adattamento, che a molti appariva come un meccanismo “naturale” facilmente accettabile, e che naturalmente piaceva molto di più ai progressisti.
La biologia moderna, a cominciare dalla genetica classica fino ad arrivare al culmine con la biologia molecolare, doveva ancora scoprire la fonte ultima sia della stabilità sia dell’evoluzione nella biosfera, con la conseguente definitiva distruzione del mito dell’antica alleanza. Mi si consenta di riassumere semplicemente, senza fornire né prove né esempi, le principali conclusioni della biologia moderna che riguarda l’argomento in discussione:
1) La caratteristica unica, universale ed essenziale degli esseri viventi è la possibilità di conservare la struttura chimica (DNA) nella quale è scritto il codice genetico.
2) L’evoluzione non è una tendenza insita negli esseri viventi. Al contrario, tutta la loro struttura è fortemente conservatrice, e infatti riesce quasi sempre a opporsi a qualsiasi cambiamento.
3) La fonte prima e unica della reale innovazione nella biosfera è costituita da perturbazioni casuali che si verificano nel meccanismo conservatore, perturbazioni di tale natura che tutte le entità fisiche inevitabilmente vi sono soggette. Tali perturbazioni colpiscono singole molecole e di conseguenza sono fondamentalmente imprevedibili e incontrollabili.
È forse opportuno far notare che l’idea di una fonte rigorosamente casuale dell’evoluzione non è una conseguenza né un’espressione del fatto che s’ignora il suo meccanismo intimo o che questo ha dimensioni troppo infime per riconoscerlo; al contrario, proprio grazie a una chiara comprensione della natura di questi meccanismi, si arriva alla sola conclusione possibile: la natura puramente casuale della loro origine. Così, la stessa comparsa della vita e, all’interno della biosfera, l’emergenza dell’uomo non possono essere concepite se non come il risultato di un immaginario gioco d’azzardo in cui a un certo punto è uscito il nostro numero; ma poteva anche non uscire, e comunque il cosmo insondabile che ci circonda non se ne sarebbe affatto preoccupato.
Non si può sfuggire a queste conclusioni né c’è la minima prospettiva che esse possano essere radicalmente modificate nel futuro in seguito a nuove scoperte scientifiche. Non occorre dilungarsi per mettere in evidenza l’incompatibilità assoluta fra questa concezione scientifica dell’uomo e della sua origine e i principi tradizionali sui quali sono stati fondati i valori, l’etica e le società.
L’impostazione scientifica rivela all’uomo che egli è un accidente, quasi un estraneo nell’universo, e riduce l’ “antica alleanza” fra lui e il resto della creazione a un filo tenue e fragile. Nessuno dei miti piacevoli o terrificanti che egli aveva sognato, nessuna delle speranze alle quali si era aggrappato tenacemente, nessuna delle certezze che per millenni avevano sorretto la sua vita morale e sociale può rimanere ancora in piedi.
La scienza, da quando è comparsa e si è sviluppata, ha improntato il mondo moderno, ha dato alle nazioni moderne la loro tecnologia e la loro potenza. Eppure queste società non hanno accettato, e quasi non hanno capito il messaggio più profondo della scienza; insegnano e predicano ancora versioni più o meno modernizzate dei sistemi tradizionali di valori che sono clamorosamente incompatibili con la loro cultura scientifica. I paesi occidentali, liberali e capitalistici, manifestano ancora un’adesione puramente formale a una nauseabonda mistura di religiosità giudaico-cristiana, di diritti “naturali” dell’uomo, di prosaico utilitarismo e di progressismo ottocentesco. I paesi marxisti producono ancora una stupefacente cortina fumogena fatta di storicismo e di materialismo dialettico privi di senso.
Mentono tutti, e sanno di mentire. Nessuna persona intelligente e colta, in questi due tipi di società, può credere sul serio alla validità di questi dogmi. Più sensibili, più impazienti, i giovani sono coscienti della menzogna e si rivoltano contro di essa, denunciando energicamente le contraddizioni intollerabili delle società moderne. Smettiamo di vivere nell’illusione, come più o meno si è sempre fatto nel passato. Gli uomini primitivi credevano nei miti, che guidavano tutta la loro vita; le società medievali credettero al paradiso, all’infemo e al peccato; gli uomini della Rivoluzione francese hanno creduto nei diritti naturali dell’uomo; Lenin e Trockij ebbero una fiducia assoluta nel materialismo storico e nella sua promessa formale di una società senza classi, liberata da ogni contraddizione.
Nessuna società può sopravvivere senza un codice morale basato su valori compresi, accettati e rispettati dalla maggioranza dei suoi membri. Noi non abbiamo più niente del genere. Potranno le società moderne continuare indefinitamente a padroneggiare e a controllare gli enormi poteri che la scienza ha dato loro con il criterio di un vago umanesimo tinto di una sorta di edonismo ottimistico e materialistico? Potranno risolvere su queste basi le loro intollerabili tensioni? Oppure crolleranno per lo sforzo?
È quest’ultima, io credo, l’ipotesi più probabile, a meno che non si verifichi una condizione: che si rimettano profondamente in discussione i valori umani, la loro vera natura e la loro origine; e, per cominciare, che si prenda coscienza della singolarità dell’uomo nel cosmo, della sua assoluta solitudine. L’uomo può allora rendersi conto che al di fuori di lui non ci sono, e non possono esserci, nessuna fonte e nessun criterio divini, storici o naturali per i suoi valori. Lui soltanto li crea, li definisce e li plasma.
Ciò equivale a dire che, per ricostruire le basi di un sistema di valori su cui possa fondarsi la vita sociale, politica e personale dell’uomo nell’epoca della scienza, dobbiamo prima di tutto fare veramente tabula rasa, dobbiamo andare più avanti e più a fondo di quanto implichi la frase profetica di Nietzsche: “Gott ist tot”. Non soltanto, infatti, “Dio è morto”, ma sono morti anche i suoi diversi succedanei, romantici, storicisti, progressisti. Non possiamo neanche più permetterci di proclamare la libertà “assoluta” dell’uomo, come hanno fatto Nietzsche e, sulla sua scia, alcuni degli esistenzialisti francesi moderni.
Nessun biologo potrebbe accettarlo. Sappiamo che siamo fatti degli stessi amminoacidi e degli stessi nucleotidi, che siamo dotati dello stesso codice, genetico di qualsiasi altro essere vivente, batterio, pianta o pesce. Saremmo ciechi se non riconoscessimo quanto siamo simili, non solo nella nostra struttura ma anche nel nostro comportamento, ai nostri cugini primi, le scimmie superiori. Faremmo bene ad ascoltare attentamente quanto ci fanno notare etologi come il professor Lorenz, secondo i quali molti comportamenti dei mammiferi, degli uccelli o dei pesci che sono determinati geneticamente potrebbero essere descritti come esempi di rigorosa obbedienza ad alcuni dei dieci comandamenti. Non c’ è bisogno di cercare una base trascendente per l’imperativo categorico: in molti casi, è abbastanza evidente la sua origine biologica.
Questa eredità biologica, profonda ed esigente, fa parte dell’essenza dell’uomo. Non tenerne conto sarebbe sciocco tanto quanto negare che questa stessa essenza partecipa anche di un altro regno, che trascende quello fisico e perfino quello biologico: parlo del regno delle idee e della conoscenza, della “noosfera”, per riprendere l’espressione di Teilhard de Chardin. La noosfera esiste come regno in parte autonomo, perché nella famiglia degli ominidi è comparsa una forma di comunicazione, che è esclusiva di questa famiglia.
Se all’inizio è stata indubbiamente selezionata e sviluppata per il suo valore di sopravvivenza, essa, introducendo nuove pressioni selettive, deve avere avuto anche un’influenza, sull’evoluzione fisica dell’uomo. Mi riferisco allo sviluppo della corteccia cerebrale umana, che possiamo ragionevolmente considerare dotata di “circuiti predisposti” per l’acquisizione del linguaggio. Il linguaggio è dunque, allo stesso tempo e inseparabilmente, un tratto fisiologico e un prodotto culturale; partecipa nel modo più profondo della duplice natura dell’essenza dell’uomo.
Recentemente è diventato di moda in alcuni ambienti filosofici francesi negare qualsiasi valore e significato al concetto di “essenza” umana. I biologi non possono non considerare del tutto insensato quest’atteggiamento. Per me, il concetto di essenza umana ha la massima importanza e il più grande fascino, perché in esso confluiscono sia i problemi genetici, embriologici e fisiologici sia gli aspetti culturali, linguistici, psicologici ed estetici.
Una ricostruzione razionale del nostro sistema di valori dovrà tener conto di tutti questi elementi ed essere pronto a evolvere e a modificarsi a mano a mano che si approfondirà la nostra comprensione dell’essenza dell’uomo. Bisogna tuttavia capire e riconoscere appieno che anche nell’epoca della scienza la filosofia morale non può fondarsi semplicemente su una sorta di essenzialismo biologico, poiché nessun sistema di valori e nessuna etica potrebbero mai essere costruiti sulla base di un’analisi puramente oggettiva dell’uomo quale esso è. Per definizione e per funzione, un sistema di valori, un’etica deve definire non un “essere” ma un “dover essere”: un alto ideale, uno scopo da perseguire che non può essere l’uomo stesso. Nessun sistema etico può essere puramente utilitaristico; pensarlo è un errore psicologico, una contraddizione in termini, la negazione della funzione stessa dell’etica.
Ne consegue che, nell’epoca della scienza nella quale non è ormai più difendibile nessuna delle ipotesi trascendenti tradizionali che avevano la funzione di definire uno scopo o un imperativo sovrumani, noi dobbiamo fare la stessa cosa, costruire un analogo sistema di valori, ma con una premessa essenziale: noi sapremo, e dichiareremo, che la nostra scelta è deliberata, cioè assiomatica, nei fatti come nelle intenzioni. Sono convinto che ciò possa essere realizzato, che un sistema del genere potrebbe venire insegnato e capito e che sarebbe rispettato proprio nella misura in cui avrà definito i valori più alti come misura e criterio di tutti i valori, di un’etica sociale e personale.
E quali altri valori ultimi allora potremmo scegliere, se non quelle creazioni che esistono nel regno delle idee, nate dall’uomo, e tuttavia trascendenti il loro creatore, dal contenuto più ricco e più vasto di quanto ogni singolo individuo e addirittura la totalità degli uomini in un determinato momento possa percepire? Parlo naturalmente del grande monumento, sempre incompiuto, della creazione e della conoscenza, vale a dire dell’arte e della scienza.
L’etica e i valori, da quando l’uomo ha cominciato a indagare sul significato della propria esistenza, sono sempre stati fondati su un qualche rapporto essenziale che si pensava esistesse fra lui e l’universo. Noi oggi sappiamo che l’unico rapporto autentico si stabilisce attraverso il regno astratto della noosfera e che l’uomo, questo straniero nel cosmo può conquistare l’universo solo mediante la conoscenza.
L’arte e la scienza esprimono due aspetti complementari della conoscenza umana, l’uno sintetico e parzialmente soggettivo, l’altro analitico e rigorosamente oggettivo. Una società che accettasse questi valori trascendenti come misura e criterio ultimo di tutti i più immediati valori umani e che si proponesse deliberatamente di servirli, dovrebbe difendere la libertà, intellettuale politica ed economica e considerare suo compito primario incoraggiare l’istruzione estensiva e intensiva. Essa dovrebbe anche promuovere un tipo di Stato-provvidenza non come un fine in sé, ma come un mezzo che consente di raggiungere un grado più alto di libertà, di creatività e di conoscenza, cioè di servire l’uomo nella sua essenza più preziosa ed esclusiva.
Jacques Monod