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Letteratura, religione, morti e psicologia

Letteratura, religione, morti e psicologia

Letteratura, religione, morti e psicologia
Libro dei morti Tibetano

Letteratura, religione, morti e psicologia. Questo articolo analizza l’importanza della letteratura alla luce dei vari libri dei morti nelle diverse religioni e soprattutto il legame tra letteratura, morti, immagini e psicologia all’interno del libro rosso di C.G. Jung, attraverso un estratto di una conversazione tra James Hillman e Sonu Shamdasani riportata nel libro Lament of the Dead: Psychology After Jung’s Red Book, Il lamento dei morti in italiano.

Il messaggio principale che ne sembra derivare è che, mentre i libri dei morti costituivano una guida per il defunto per arrivare nell’aldilà, il libro rosso, così come buona parte della migliore letteratura, costituisce al contrario una guida suggerita ai vivi da parte dei defunti per raggiungere la tanto agognata consapevolezza della nostra esistenza.
Carl William Brown

Volgiti ai morti, ascoltane il lamento e prenditi amorevolmente cura di loro.
Carl Gustav Jung

Ovunque vado trovo che un poeta è stato lì prima di me.
Sigmund Freud

Ciò per cui i morti non parlavano, da vivi, te lo possono dire, da morti: la comunicazione dei morti è una lingua di fuoco al di là del linguaggio dei vivi.
T.S. Eliot

Lo scopo della letteratura è trasformare il sangue in inchiostro.
T.S. Eliot

Le tre grandi divinità madri dei popoli orientali sembra fossero generatrici e annientatrici insieme; dee della vita e della fecondità nello stesso tempo che dee della morte.
Sigmund Freud

D’ora in poi voglio immaginarmi la morte come una tenera e affettuosa mamma che con estremo amore, stringendomi sorridente al suo seno per tutta l’eternità, invece di darmi la vita me la toglierà.
Carl William Brown

Il libro dei morti egiziano
Il libro dei morti egiziano

Abbiamo ucciso i morti, e adesso ci aggiriamo in una vita che è poco più di un pregiudizio, lontani dalla pienezza dell’esistenza. Ecco il sintomo collettivo, la malattia di cui soffre la nostra cultura, e che le psicoterapie tentano invano di sanare. Lo intuì un secolo fa C.G. Jung, quando iniziò quella discesa nei propri abissi inferi che avrebbe speso anni a trascrivere, calligrafare e corredare di immagini sfolgoranti, consegnando poi il testo a un silenzio infranto solo nel 2009, con l’edizione che lasciò stupefatti: il Libro rosso, favoleggiato da tempo nelle cerchie junghiane, vedeva finalmente la luce e la sua unicità ancora da decifrare scuoteva non solo l’edificio della psicologia analitica ma ogni altra costruzione concettuale eretta sul territorio della psiche.
James Hillman

Pensiamo che ogni elaborazione mentale faccia parte del Tagesrest, come lo chiama Freud: i residui diurni, immagini composite, la spazzatura della vita. Ma Jung dice che persino i nostri pensieri derivano dalle figure. Dunque il compito sarebbe riportarle alla luce, e il Libro rosso sembra fare esattamente questo. Jung permette alle figure di parlare, di mostrarsi. Addirittura le incoraggia a farlo.
James Hillman

Leggevo della pratica diffusa tra gli antichi egizi di aprire la bocca dei morti. Era un rituale e non credo sia possibile riprodurlo oggi, con le nostre mani. Eppure aprire il Libro rosso è un po’ come aprire la bocca dei morti.
James Hillman

La religione è solo letteratura, ma la letteratura non è solo religione.
Carl William Brown

Ci vuole il sangue. L’opera è il «libro dei morti» di Jung, la sua discesa nel mondo infero, il tentativo di stabilire un rapporto con i morti. Jung si rende conto che se non veniamo a patti con i morti semplicemente non possiamo vivere, e che la nostra vita dipende dalle risposte che diamo alle loro domande rimaste senza risposta.
Sonu Shamdasani

Gli antenati. I morti. Non è una mera metafora, un messaggio cifrato per indicare l’inconscio o qualcosa del genere. Quando parla dei morti, Jung intende proprio i morti. E loro sono presenti nelle immagini, continuano a vivere.
Sonu Shamdasani

Nel commento al “Segreto del fiore d’oro” c’è un punto in cui Jung parla dell’importanza del lasciar accadere, o Gelassenheit, una lezione appresa da Meister Eckhart e analoga al wu wei dei taoisti, ovvero non fare nulla ma lasciare che gli eventi psichici accadano da soli. Lì ha luogo la relativizzazione: si consente l’emergere spontaneo delle figure, si fa un passo indietro e poi si tenta di valutare, di seguire ciò che ne scaturisce.
Sonu Shamdasani

I libri dei morti sono importanti in molte religioni, poiché contengono istruzioni, preghiere e rituali per assistere i defunti nel loro passaggio dall’esistenza terrena a quella dopo la morte.

Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung

Nella religione egizia, il “Libro dei Morti” era una raccolta di testi funerari che venivano posizionati nelle tombe per aiutare il defunto a superare le prove del regno dei morti e a raggiungere la vita eterna. Il libro conteneva preghiere, incantesimi, formule magiche e istruzioni per la mummificazione.

Anche nella religione tibetana, esiste un “Libro dei Morti”, chiamato “Bardo Thodol”, che fornisce una guida per il defunto attraverso i vari stati di transizione tra la morte e la rinascita.

Nella religione cristiana, il “Libro della Vita” è menzionato nella Bibbia come un registro dei nomi dei giusti che godranno della vita eterna. Il Libro di Apocalisse, in particolare, contiene riferimenti al giudizio finale e alla risurrezione dei morti.

In generale, i libri dei morti rappresentano un modo per la religione di fornire conforto e guida ai propri fedeli anche dopo la morte. Essi offrono una sorta di mappa per il viaggio verso la vita eterna, aiutando il defunto a superare le prove che si presentano nel loro passaggio nella dimensione successiva.

Il “Libro Rosso” di Jung è un’opera privata e molto personale dello psicologo svizzero Carl Gustav Jung, che egli scrisse tra il 1914 e il 1930. Il libro, che originariamente venne tenuto segreto, fu pubblicato per la prima volta nel 2009, molti anni dopo la morte di Jung.

Il “Libro Rosso” è una raccolta di appunti, disegni e riflessioni di Jung sui suoi sogni, le sue visioni e le sue esperienze interiori. È considerato un testo fondamentale della psicologia analitica, la teoria psicologica sviluppata da Jung, che sottolinea l’importanza dell’inconscio e del simbolismo nella vita umana.

Nel libro, Jung descrive il suo viaggio interiore, esplorando le profondità della sua psiche e incontrando figure simboliche che rappresentano diverse parti di sé stesso. Egli considerava questo viaggio come un’esperienza spirituale e un processo di individuazione, ovvero il processo di diventare una persona completa e consapevole di sé stessa.

Il “Libro Rosso” è una lettura impegnativa e complessa, ma è anche un’opera molto preziosa per chi è interessato alla psicologia analitica, alla spiritualità e all’esplorazione della psiche umana. Esso rappresenta una testimonianza unica della vita interiore di uno dei più importanti psicologi del XX secolo.

Dal libro Lament of the Dead: Psychology After Jung’s Red Book , Il lamento dei morti in italiano.

SS: Abbiamo accennato all’importanza della letteratura. A suo avviso la letteratura cosa può offrire alla psicologia?

Il libro rosso di C.G. Jung
Il libro rosso di C.G. Jung

JH: Santo cielo, al momento è proprio il mio interesse principale. Ho l’impressione che il modo in cui comprendiamo le persone nella pratica della terapia sia terribilmente inadeguato: abbiamo i casi clinici, abbiamo i manuali diagnostici, che a loro volta contengono centinaia di categorie diagnostiche, ma non percepiamo mai la persona in carne e ossa. Nel XIX secolo, invece, e anche per parte del XX, i casi clinici erano scritti in modo tale da mostrare la calligrafia del paziente, ogni dettaglio della sua vita lavorativa, i resoconti dei suoi figli … Tutto era condensato in relazioni tutt’altro che piatte e anodine. Al centro delle descrizioni c’era una sorta di figura immaginaria o letteraria.

Oggi le statistiche riportate nei manuali diagnostici affermano che tot persone con un certo tipo di schizofrenia hanno una crisi dopo tot anni eccetera, e capisco che sia così, perché esiste una quantità sterminata di resoconti basati sulle prove di efficacia per quanto riguarda la prognosi, il trattamento e così via. È un approccio molto psichiatrico, molto medico. Tuttavia, se le figure basilari che determinano la vita di una persona non sono caratteristiche della persona stessa, tanto per cominciare, ma sono le figure incontrate da Jung e da centinaia di pazienti, perché non partire da lì per ottenere modelli o immagini che ci aiutino a capire che cos’è la vita di una persona, di che cosa è fatta l’anima di una persona?

Prima che nascesse la psicologia, intorno al 1900 – la psicologia nel senso dei casi clinici, intendo -, c’erano i romanzi. Per tutto il XIX secolo Jane Austen, Tolstoj, Turgenev, Balzac misero in pagina le più straordinarie descrizioni della vita umana. Le tragedie, le sofferenze, lo humour, le stranezze, gli appetiti, la brutalità, le perversioni: nella letteratura c’era tutto. E la gente comune leggeva parecchia letteratura, o seguiva uno come Dickens nei suoi giri di conferenze, solo per apprendere quelle storie e scoprire com’era la vita.

Ecco, mi sembra che il legame tra le figure sia di per sé una parte del lavoro di apprendimento: la pratica dell’immagine, vedere come le figure lavorano insieme, che cosa costruiscono, quale influenza esercitano. È esattamente ciò che faceva la letteratura, ciò che ha continuato a fare. Per molti versi è diventata più sofisticata, ma non ha smesso di parlare della vita delle persone. Le storie raccontavano di una donna che si sentiva male se qualcosa non andava per il verso giusto in famiglia, e allora si stendeva sul divano o sul letto, o sveniva; oppure di un uomo che faceva innamorare tutte le ragazze del quartiere.

I romanzi erano pieni di questo ricco materiale descrittivo sulla vita, su come sia piena di ipocrisia, inganni, azioni meschine e crudeli, rifiuti, indifferenza e chi più ne ha più ne metta. Credo che la via per tornare a comprendere la natura umana passi dagli studi letterari, non dalle descrizioni scientifiche dei casi clinici, o dalle analisi statistiche, o da qualunque altra cosa venga insegnata agli aspiranti terapeuti. Sarebbe uno studio della vita attraverso la buona scrittura.

SS: Capisco dove vuole arrivare, ma penso che lo status conferito alla letteratura sarebbe potenzialmente problematico, così come il modo in cui potrebbe essere intesa, perciò preferirei un linguaggio più neutro. Tuttavia la funzione che lei attribuisce alla letteratura è significativa. La descriverei come un fornire ricche articolazioni dell’esperienza.

JH: Ottimo.

SS: Nelle quali gli individui possono riconoscere se stessi e gli altri. Oggi le persone hanno a disposizione molte fonti, non solo la letteratura …

JH : Il teatro e così via.

James Hillman
James Hillman

SS: E paradossalmente, con il fallimento della sua volontà scientifica, la psicologia viene trasformata in un altro mezzo che fornisce articolazioni dell’esperienza. La si legge come letteratura. Non per niente, con la disfatta della psicoanalisi il suo ultimo rifugio sono state le facoltà letterarie.

JH: È vero. L’ultimo baluardo.

SS: Personalmente diffido dei giudizi di valore. A me interessa di più il modo in cui le persone usano le cose. In questo senso, le psicologie sono usate come veicoli per l’articolazione dell’esperienza, mediante i quali gli individui riconoscono se stessi e riconoscono gli altri, e trovano psicologie di loro gusto. Ho una certa remora a valorizzare una forma di articolazione dell’esperienza a discapito delle altre.

JH: Immagino che dovrei usare la parola «storia» anziché «letteratura ». Ma non importa. Vorrei concentrarmi sulla «ricca articolazione dell’esperienza», come la chiama lei, ciò che permette di intuire la natura profonda delle cose.

SS: La parola-chiave è «intuizione» [insight] . A mio avviso le psicologie più fortunate sono quelle che forniscono mezzi operativi semplici: sono abili nella microgestione dei rapporti umani e possono suggerire quale comportamento adottare nei confronti degli altri, ma non forniscono necessariamente intuizioni differenziate. Proprio la semplicità spiega il loro relativo successo.

JH: Probabilmente dovremmo tornare alla questione della letteratura. Mi interessa molto, comunque, e uso il termine in senso ampio per indicare tutte le arti, compreso il grande teatro, in special modo quello greco, e Omero, Shakespeare e cosl via. La vera preparazione per il bravo terapeuta che deve comprendere la natura umana e decifrare la vita delle persone si trova ancora nella Natasha di Guerra e pace di Tolstoj, nel Falstaff di Shakespeare: sono le figure vive che rimangono con noi più di qualsiasi essere umano che abbiamo mai conosciuto. Quando dico che rimangono, intendo che sono realtà psichiche, e possiamo imparare di più dagli scrittori particolarmente accurati o brillanti o eloquenti che dallo studio dei casi clinici.

Quello che si impara da un caso clinico si estende ben poco alle altre persone, alla vita, non è una lezione sempre valida. Perciò la letteratura va tenuta in gran conto. Il vero studio, per il terapeuta, consiste nel leggere di vite che non sono di persone reali ma che incarnano la parte profonda della vita umana, i poteri da cui siamo tenuti in vita e che i bravi scrittori articolano cosl bene. E non solo i bravi scrittori: questa è la cosa curiosa. C’è poi un secondo aspetto da considerare, e cioè il fatto che la psicologia stessa non dovrebbe basarsi sulle statistiche, sulla sociologia, in qualunque modo la si voglia chiamare, sulla realtà politica e così via, ma sulla storia vissuta da una vita umana e presentata dalla letteratura.

Come facevamo a conoscere la psicologia prima ancora che esistesse? Nel XIX secolo le persone, in particolare le donne, leggevano – e scrivevano – romanzi e racconti straordinari, che permettevano di capire a fondo come siamo fatti, come funziona la psiche umana: i romanzi popolari, ma anche le grandi tragedie, che mostravano come gli Dèi intervengano nelle nostre vite. Per me questa è la base estetica del nostro studio, del nostro lavoro, che finora è sempre stato sulla strada sbagliata. La discussione sulla bellezza in Joyce e in Picasso non è ancora finita, Jung e gli junghiani non hanno affrontato a dovere la questione dell’importanza primaria della bellezza, e dunque dell’estetica, per la vita della psiche.

SS: Se osserviamo le stesse questioni nel Libro rosso, vediamo che Jung evita il linguaggio concettuale, perché si rende conto che non è in grado di racchiudere il linguaggio dell’anima. E si tratta del linguaggio dell’anima, per quel che lo riguarda, perché il dialogo avviene tra lui e la sua anima. C’è bisogno di un linguaggio nuovo, letterario ma non finzionale, su questo Jung è molto chiaro. L’opera è tutta Wahrheit [verità] e non Dichtung [poesia], come dice a Cary Baynes, e fa il possibile per trovare un linguaggio che comunichi, che evochi il potere emozionale delle esperienze in questione.

Sonu Shamdasani
Sonu Shamdasani

JH: Questo è l’importante. Oggi il linguaggio della psicologia non comunica nessuna emozione, non comunica la bellezza dell’esperienza che descrive.

SS: È la differenza principale fra il linguaggio dell’evocazione come lo intendo io, che rimanda alle esperienze facendole echeggiare, e il linguaggio della spiegazione. La spiegazione – considerando il fatto problematico che Jung è coinvolto nel Libro rosso – uccide l’esperienza. Jung si dedica al linguaggio della spiegazione fino al 1912, ed è una cosa che lo lascia svuotato.

JH: Svuotato come persona?

SS: Sì. E lo sa il cielo quali effetti ha sui suoi pazienti e sui suoi colleghi. Perciò la questione è: che cos’è il Libro rosso? È ancora psicologia? Jung fatica a risolvere il problema. Alla fine si allontana dall’opera e torna a una forma di concettualismo, perché ha la sensazione che perderebbe la sua credibilità scientifica se si abbandonasse a quella forma espressiva.

JH: Oppure trova inadatte le forme di cui si parlava poco fa, le forme estetiche e artistiche dell’epoca, e con la sua esperienza ha la sensazione di essere entrato in forme nuove che tuttavia non ha ancora formulato. È il pezzo mancante: la formulazione della nuova esperienza dell’anima senza regredire alla vecchia modalità concettuale.

SS: E senza cadere nell’estetismo, come lo avrebbe chiamato Jung, l’idea di un’estetica che è mera superficie o apparenza. L’estetica ha anche un senso più profondo, usato per comunicare la profondità dell’esperienza. È l’estetica con cui ha a che fare Jung e che per molti versi è inelegante. Non siamo davanti a un libro ben scritto, e le raffigurazioni pittoriche non sono formalmente compiute, ma proprio per questo motivo l’opera è più efficace o più emozionante. Fa a pugni con le categorie estetiche dello stesso Jung.

JH: Giusto. Tuttavia il guaio è che Jung si porta ancora dietro la separazione tra etica ed estetica avvenuta dopo la fine della Grecia antica. Se una cosa è solo estetica è dilettantesca, non è davvero impegnata, dunque è immorale o non etica. In ciò consiste l’estetismo. Ma non dimentichiamo che i romantici, i greci, gli uomini del Rinascimento ne avevano già discusso molto tempo prima. Jung viene da una tradizione – non so se chiamarla protestantesimo o altro – che ha già giudicato l’estetica a sé stante come priva di valore morale.

SS: Ricollegandomi al discorso della cosmologia, credo che l’elemento cruciale sia l’espressione adeguata, appropriata, penetrante. A mio parere il linguaggio del Libro rosso è il più penetrante fra quelli usati da Jung proprio perché non è concettuale. Nel secondo strato, dove riflette sulla propria esperienza, Jung vuole che siano le esperienze stesse a riverberare, a echeggiare.

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